Perché è arrivato il momento di confrontarsi con la finanza islamica
28 Luglio 2010
Nella finanza islamica assume un ruolo fondamentale il divieto di Ribà, corrispondente al nostro “interesse”.
L’interesse su finanziamento, dovuto a prescindere dai risultati economici derivanti dall’impiego del denaro prestato, viene infatti visto come un ingiustificato arricchimento. La Shariah, però, ammette il principio del profit and loss sharing, la condivisione cioè del rischio (e dei relativi profitti) tra detentore di capitali (a carico del quale restano comunque le perdite) ed imprenditore. Nella finanza islamica il capitale di rischio (e quindi la partecipazione azionaria) viene sempre preferito rispetto al capitale di debito.
Nell’ottica del divieto di (ingiustificato) arricchimento sul prestito finanziario, quindi, anche il mutuo diventa un contratto gratuito e il mutuatario dovrà restituire il solo capitale prestato senza interessi.
La remunerazione del prestito potrà semmai essere legata ai benefici che il mutuatario ricava dalla somma ed ai costi che il mutuante effettivamente sopporta.
Data tale impostazione, dunque, nel mutuo immobiliare “islamico”, il cliente sceglie l’immobile, paga un minimo predeterminato per la perizia e se la banca ritiene l’operazione economicamente valida, è la banca che acquista l’immobile e lo rivende al cliente ad un prezzo maggiorato. A quel punto il cliente paga l’immobile a rate per un periodo predeterminato.
Tanto premesso in ordine al funzionamento della finanza islamica in materia di prestiti, laddove vengano predisposte anche in Italia le cosiddette islamic windows, cioè strutture che, all’interno delle ordinarie banche, effettuano servizi di finanza islamica, quale dovrebbe essere il trattamento fiscale dall’applicazione dei tassi d’interesse (o meglio della mancata applicazione dei tassi di interesse)?
La discrasia tra il sistema della finanza islamica e quella italiana e tra i relativi sistemi giuridici (sia di civil law che di common law) potrebbe infatti comportare conseguenze fiscali anche in termini accertativi.
Con riguardo per esempio alle imposte dirette, l’applicazione dei principi contabili internazionali, potrebbe portare alla qualificazione (rectius: riqualificazione) delle operazioni di finanza islamica non in base alla forma giuridica, ma alla sostanza economica delle stesse.
La maggiorazione di corrispettivo che, in un’operazione di mutuo “islamico”, viene pagata dal cliente alla banca sul prezzo di riacquisto (vedi sopra) potrebbe dunque comportare una riqualificazione del mark up come interesse, con importanti conseguenze fiscali sia per i clienti che per le banche (basti pensare alla deducibilità degli interessi ai fini delle imposte sui redditi per il cliente e alla diversa qualificazione ai fini Irap per la banca).
In altre fattispecie in cui l’interesse sui finanziamenti non viene applicato, del resto, il comportamento dell’Amministrazione Finanziaria è sempre stato piuttosto “restrittivo”. Non di rado, per esempio, i mutui concessi alle società controllate nell’ambito di un Gruppo sono gratuiti, senza cioè applicazione di interessi attivi sulla somma data in prestito.
Ma, ai sensi dell’art. 1815 del codice civile, il mutuatario è sempre tenuto alla corresponsione degli interessi al mutuante, "salva diversa volontà delle parti". Anche la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 21540/2005, ha affermato che i finanziamenti si presumono sempre fruttiferi di interessi.
Ai fini fiscali, del resto, per i capitali dati a mutuo, gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto; se le scadenze non sono stabilite per iscritto, gli interessi si presumono percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta e se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale.
Perché dunque nel caso dei mutui islamici il comportamento dovrebbe essere differente? Per quanto riguarda invece le imposte indirette, l’art. 10, n. 1, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, che prevede l’esenzione di imposta per le operazioni di finanziamento, essendo vietata un’interpretazione estensiva delle ipotesi di esenzioni, non dovrebbe essere applicabile a tali tipi di operazioni, le quali, come detto, comportano comunque una doppia compravendita, con tutto ciò che ne segue in termini di (doppia) imposta di registro nei due passaggi: dal venditore alla banca (laddove l’operazione sia esente da Iva, ai sensi dell’art. 10, n. 8-bis) o 8-ter), del D.P.R. n. 633/1972) e dalla banca al cliente.
D’altro canto, se pure tale interpretazione estensiva fosse possibile e se è vero che tali tipi di operazioni devono essere riqualificate in base alla sostanza economica e cioè quali operazioni finanziarie, esenti da imposta, ai sensi dell’art. 10, n. 1), citato, allora, però, la banca, che utilizza i beni e i servizi ricevuti per il compimento di operazioni in gran parte esenti, potrebbe detrarre, nell’ambito del regime del pro quota di cui all’art. 19-bis del D.P.R. n. 633/1972, solo una minima parte dell’Iva addebitata a monte.
La banca infatti, pur compiendo un’operazione finanziaria nella sostanza (e quindi esente IVA), acquisterebbe, in base alla “forma” giuridica dell’operazione, il diritto ad incrementare la propria quota di Iva detraibile.
In base dunque al principio (di derivazione comunitaria) dell’abuso del diritto, l’Amministrazione Finanziaria dovrebbe guardare allora alla sostanza economica dell’operazione e prescindere dagli effetti fiscali del nomen iuris, solo formale, non tenendo conto dell’IVA addebitata alla banca pagata a monte per l’acquisto del bene.
La Corte di Giustizia CE (e poi anche la Corte Suprema) ha del resto espressamente previsto che è oggi possibile contestare anche la nullità di un’operazione laddove manchi una "causa" contrattuale meritevole di tutela.
La causa è infatti la funzione economico-sociale svolta, comune a tutti i negozi di quella fattispecie e il negozio è in particolare illecito quando la stessa causa (o l’oggetto) è contraria all’ordine pubblico o al buon costume.
Il problema dunque è il seguente: i principi islamici che giustificano questo tipo di operazioni sono compatibili con la funzione economico-sociale del nostro ordinamento (e con i riflessi fiscali che ne conseguono)?
Insomma, la finanza islamica rappresenta senza dubbio un campo giuridico e fiscale molto complesso, con cui però, visto il carattere globale della nostra economia, è ormai necessario confrontarsi, approntando, anche normativamente, i dovuti correttivi e le opportune previsioni.