Perché è giusto riformare la Costituzione Economica
16 Giugno 2010
Prima di affrontare il tema della possibilità e della opportunità di riformare la nostra Costituzione economica è necessario porsi una domanda di fondo: ma è poi davvero necessaria una Costituzione economica? Non si tratta di una domanda retorica o paradossale. Anzi, affrontare la questione può essere utile per meglio ricostruire i caratteri fondamentali della nostra Costituzione e per affrontare il tema delle sue prospettive di riforma.
Due sono le prospettive dalle quali è possibile partire. Dal punto di vista teorico, occorre sottolineare come il nucleo essenziale di ogni Costituzione è costituito dalla (solenne) affermazione di alcuni diritti e di alcune libertà fondamentali degli individui. Diritti e libertà la cui sanzione costituzionale determina l’indisponibilità da parte del potere politico costituito. Una società in cui la moltitudine degli individui sia sottoposta al potere assoluto, come già evidenziato da un pensatore, che pure non può essere certo considerato come un campione del pensiero liberale costituzionale, come Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto), non ha per definizione una Costituzione in senso proprio. Libertà ed uguaglianza sono le due polarità attorno alle quali si struttura un Costituzione, la quale nello stesso momento in cui riconosce e garantisce questi due valori chiarisce e legittima anche le forme ed i limiti degli interventi che comprimono, limitano o condizionano gli stessi.
Conseguentemente le carte costituzionali prevedono una organizzazione dei poteri pubblici idonea a garantire il pieno rispetto delle libertà e dei diritti riconosciuti agli individui. Il principio di separazione dei poteri, la legittimazione democratica dei poteri legislativo ed esecutivo, la superiorità del governo delle leggi su quello degli uomini, sono gli strumenti fondamentali per la tutela dei diritti e delle libertà individuali e per la garanzia dell’uguaglianza dei cittadini. La stessa Dichiarazione dei diritti del 1789 all’articolo 16 chiarisce che "Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è stabilita non ha una Costituzione". Sulla base di queste premesse non appare facilmente iscrivibile nella prospettiva costituzionale classica la previsione di un dettagliato quadro di norme costituzionali dirette a regolare per linee generali i diversi settori del sistema economico del Paese.
E’ naturale che le Costituzioni svolgano anche un’essenziale funzione identitaria perché, prima ed al di là della fissazione di regole sovraordinate rispetto a quelle prodotte ordinariamente dai pubblici poteri, esprimono l’idea di sé di una collettività. Definiscono l’identità di un popolo che è un prerequisito perché il medesimo popolo senta di appartenere ad una collettività e quindi riconosca la cogenza di tali regole. E’ però da sottolineare come tale funzione "identitaria" rappresenti l’in sé della Costituzione. Più che tradursi in puntuali previsioni normative, caratterizza ed attraversa l’intero testo della Carta. Ed in ogni caso un’eventuale traduzione testuale viene normalmente svolta in sede di preambolo o di principi generali.
Rappresenta viceversa un elemento di originalità la scelta della nostra Costituzione di declinare tale profilo "identitario" attraverso numerosi e puntuali articoli dedicati alle attività economiche. Articoli che spaziano dall’attività di impresa alla programmazione economica, dalla funzione sociale della proprietà pubblica e privata alla bonifica delle terre ed alla trasformazione del latifondo, dalla tutela delle zone montane alla piccola proprietà contadina, dal diritto alla giusta e sufficiente retribuzione alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, dal credito all’azionariato popolare, dalla cooperazione all’artigianato.
E che si tratti di un elemento di originalità della nostra Carta fondamentale (certo non il solo, forse non il più rilevante) è del resto confermato volgendo lo sguardo alle Costituzioni dei più avanzati ordinamenti stranieri, le quali o ignorano del tutto le attività economiche o si limitano a rendere esplicita la garanzia costituzionale della proprietà privata, prevedendo le condizioni per l’espropriazione per pubblica utilità, e della libera iniziativa economica. Si prenda, ad esempio, la coeva Costituzione della Repubblica Federale Tedesca, adottata nel medesimo periodo storico ed in un contesto socio politico per molti versi analogo al nostro, la quale alla materia economica dedica un articolo, l’articolo 14, che sancisce la tutela della proprietà privata ed fissa i limiti per l’esproprio dei beni privati ed uno, l’articolo 15, che prevede genericamente la possibilità di nazionalizzare imprese previo indennizzo. O la Costituzione della V Repubblica francese del tutto priva di disposizioni in materia economica. E quando, come nel caso della Costituzione della Repubblica confederale elvetica (della fine del XIX secolo e da allora ripetutamente modificata), si riscontra una serie articolata e puntuale di norme in materia economica, si tratta di disposizioni essenzialmente finalizzate a regolare i rapporti fra la Confederazione ed i cantoni.
Tra le costituzioni vigenti nei Paesi dell’Unione europea l’unica che contiene una sezione economica paragonabile alla nostra Costituzione economica è quella portoghese del 1976 la quale peraltro si avvicina molto al modello delle costituzioni socialiste e, già in sede di preambolo, solennemente sancisce la volontà costituente (rimasta inattuata) di “intraprendere la strada verso una società socialista”. E del resto, occorre ricordare come la Costituzione della Repubblica portoghese sia stata oggetto in questi trentacinque anni di numerose revisioni alcune delle quali dirette proprio ad eliminare quella “accentuazione anticapitalistica” (come la definisce il costituzionalista portoghese Jorge Miranda), sconosciuta alle altre costituzioni europee stabilizzate.
Perché l’Italia ha una Costituzione economica?
Le ragioni storiche e politiche di tale originalità risiedono a mio avviso nei caratteri fondamentali della nostra Costituzione i quali a loro volta derivano dal particolare contesto storico, politico e culturale in cui avvenne la stesura. Volendo inquadrare la Costituzione del ’48 attraverso le categorie classificatorie elaborate dalla dottrina potremmo dire che la nostra è una Costituzione di natura chiusa, assiologica ed armistiziale. "Chiusa" ovvero fondativa di un ordine giuridico e non, come nel modello delle Costituzioni aperte, tipico del costituzionalismo del XVIII e XIX secolo, ricognitiva di un ordine presupposto.
Ma la nostra Costituzione, a differenza delle altre Costituzioni di tipo chiuso, tipiche del costituzionalismo del XX secolo, non si limita a definire un sistema di regole limitative dei poteri pubblici e regolative dei rapporti fra questi, nella prospettiva di garantire la pacifica convivenza civile. La nostra è una Costituzione con spiccata valenza assiologica ovvero esprime un complesso sistema di valori secondo un modello nel quale iussum coincide con iustum. E questa valenza assiologia trova proprio nella sezione economica la sua manifestazione più esplicita.
Ma a complicare la situazione vi è anche un’altra circostanza: il generale contesto storico del Paese e le concrete vicende che ne accompagnarono l’elaborazione e l’adozione determinarono anche il carattere evidentemente "armistiziale" della Costituzione. Un carattere armistiziale che derivava non tanto dal conflitto fra chi aveva vinto e chi aveva perso la guerra che portò alla nascita della Repubblica, quanto dal conflitto interno all’alleanza di forze politiche, sociali e militari risultate vincitrici. E non si trattò del fisiologico conflitto fra soggetti portatori di posizioni politiche diverse, ma uniti da una comune visione del mondo. Il conflitto aveva natura "esistenziale", perché relativo ai principi fondamentali del vivere comune e perché ciascuno temeva che dal successo dell’altro potessero derivare pericoli per la propria stessa sopravvivenza.
Ma proprio il carattere al tempo stesso chiuso, assiologico ed armistiziale della nostra Costituzione ne condizionò in profondità i contenuti iniziali e le vicende successive. Si pensi in primo luogo al carattere indefinito, quando non ambiguo di alcune sue solenni affermazioni, la cui puntuale definizione fu il prodotto della faticosa ricerca di un punto di equilibrio fra concezioni politiche inconciliabili. Una faticosa attività di composizione che da un lato conferì al testo un elevatissima qualità lessicale e linguistica ma dall’altro determinò il carattere ambiguo, quando non evanescente di alcune norme. Già l’incipit, "L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro", derivante dai successivi affinamenti della iniziale proposta di sancire "L’Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori", rappresenta un raffinato tentativo di conciliazione di opposte visioni politiche, il quale però finisce per scolorire il valore normativo della disposizione e per rendere sfuggente lo stesso suo valore semantico. O si pensi ancora al fondamentale articolo 42, primo comma, "La proprietà è pubblica o privata", che, riletto oggi, si presenta come una mera tautologia, a meno di non volerne rintracciare il valore semantico nell’ordine (evidentemente non alfabetico) nel quale le due categorie di proprietà sono indicate.
E del resto il carattere di "indeterminatezza" di alcune parti della Costituzione (ed in particolare della sua sezione economica) è stato anche alla base dei due diversi modi di leggere la nostra Carta che in modo differente ha attraversato tutto il periodo della sua vigenza. Da un lato quello di chi, ancorato ai modelli consolidati del Costituzionalismo liberal-democratico, nell’interpretazione della norme costituzionali pone l’accento sulla loro funzione di limite alla discrezionalità del legislatore ordinario. Dall’altro quello di chi esaltando la funzione assiologia della Carta è indotto a configurarla come una sorta programma costituzionale di governo, il quale deve conformare l’azione dei governi e la produzione legislativa del Parlamento. Ed in questa prospettiva deve essere inquadrato tutto quel filone di riflessione culturale e scientifica e di polemica politica che in questi anni ha in vario modo denunciato non, come sarebbe lecito attendersi, la violazione, ma l’inattuazione (?!) della Costituzione.
Quale è stata la resa della nostra Costituzione economica?
La successiva domanda alla quale occorre dare risposta per affrontare la questione delle prospettive di riforma della Costituzione economica riguarda la sua "capacità propulsiva". Ovvero in che misura la Carta fondamentale è riuscita a sostenere ed a favorire lo sviluppo economico realizzato dal Paese, pur con limiti e contraddizioni, negli ultimi sessant’anni? Ed in che misura i problemi economici che oggi abbiamo di fronte (alto debito pubblico, scarsa competitività, apparati pubblici pletorici ed inefficienti, iperegolamentazione delle attività economico-produttive, burocratizzazione della vita sociale) si sono determinati con il concorso delle previsioni costituzionali?
La risposta a questa domanda è naturalmente assai più complessa ed incerta ma si possono svolgere almeno due considerazioni. Da un lato, è indubitabile che le singole norme della Costituzione economica, ed in particolare quelle che più presentano un carattere ambivalente ed indeterminato, in questi sessant’anni sono state interpretate, anche con il concorso della Corte Costituzionale, in modo sostanzialmente coerente con i principi del libero mercato, e ciò ha reso possibile l’importante progresso economico e sociale realizzato dal Paese a partire dal secondo dopoguerra. Al tempo stesso appare difficile contestare che almeno alcuni dei problemi e delle criticità che caratterizzano in modo strutturale il nostro sistema si sono potuti verificare anche perché gli argini costituzionali erano assenti o si sono rivelati insufficienti.
Si prenda ad esempio lo stato della finanza pubblica, che rappresenta l’esempio più evidente di fallimento delle previsioni costituzionali. Nonostante i vincoli rigorosi posti dall’articolo 81 (natura formale della legge di bilancio ed obbligo di copertura finanziaria delle leggi di spesa) il nostro registra il secondo debito pubblico (in valore assoluto ed in rapporto al PIL) fra tutti i Paesi avanzati. Ed infatti il meccanismo delineato in Costituzione, che rappresenta un’originale applicazione del principio di “spontaneità ed unanimità nell’approvazione delle imposte" elaborato sul finire del XIX secolo da Knut Wicksell per garantire la responsabilità finanziaria delle decisioni di spesa, doveva servire nelle intenzioni dei proponenti (Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni) a garantire il tendenziale pareggio di bilancio. Ma tale meccanismo si rivelò ben presto del tutto incapace di governare le impetuose tendenze all’espansione della spesa pubblica ed alla lievitazione del deficit di bilancio registratesi in tutti i Paesi occidentali. E così dopo decenni di crescita ininterrotta dei disavanzi annuali di bilancio il Paese è riuscito a mettere la finanza pubblica sotto controllo solo quando, grazie all’introduzione di un vincolo esogeno, è stato posto un argine efficace alla nostra discrezionalità finanziaria.
In altri casi è possibile invece ritenere che il verificarsi di criticità del nostro sistema economico sia stato consentito, se non favorito, dalla mancanza di precise indicazioni costituzionali. Rileggendo oggi la Costituzione, colpisce ad esempio il carattere condizionato del riconoscimento della libertà di iniziativa economica, la mancanza di un qualunque richiamo ai principi della concorrenza come essenziale meccanismo di funzionamento del mercato o l’ampiezza della previsione relativa alle forme ed ai contenuti dell’intervento diretto dello Stato nell’economia. Il baricentro dell’impianto culturale della Costituzione economica è rappresentato dai produttori (lavoratori, imprese pubbliche, imprese private) mentre è del tutto assente la categoria del consumatore, che viceversa rappresenta l’architrave dell’economia di mercato.
Ed anche la scarsa competitività del sistema Paese, frenato dalla regolamentazione a volte eccessiva e burocratica delle attività economiche ha trovato una legittimazione istituzionale nell’ampiezza della previsione costituzionale sui programmi ed i controlli che possono essere introdotti per indirizzare a fini sociali l’attività economica (ancora una volta prima pubblica, e poi privata, secondo l’articolo 41). Da questo punto di vista il testo della Costituzione risente in modo evidente del contesto storico nel quale fu redatta. Un Paese da ricostruire dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, un’economia internazionale bloccata dagli eventi bellici con un basso interscambio commerciale, rendevano inimmaginabile quello spettacolare processo di crescita che le economie occidentali avrebbero realizzato a partire dagli anni cinquanta. In particolare, l’assenza di qualunque segnale che potesse far prevedere il processo di globalizzazione economica, l’integrazione economica europea, l’emersione di nuovi protagonisti dell’economia mondiale, limitava l’orizzonte culturale dei costituenti all’interno dell’orizzonte dello Stato Nazione nel cui ambito chiuso si immaginava dovesse interamente (o quasi) svolgersi il processo economico.
E’ attuale la nostra Costituzione economica?
E proprio il forte legame che esiste fra la Costituzione economica ed il contesto sociale ed economico del tempo fa naturalmente sorgere il dubbio sull’attualità e sull’adeguatezza delle sue previsioni. Nel corso di questi sessant’anni sono intervenute novità così profonde da sconvolgere il quadro al cui interno si sviluppano i processi economici. E non si tratta solo delle modifiche di contesto derivanti dall’evoluzione del sistema economico internazionale. Si tratta soprattutto delle fondamentali modifiche istituzionali che hanno radicalmente cambiato forme e contenuti del ruolo dello Stato nell’economia. In particolare, l’avanzare del processo di integrazione europea e l’adesione dell’Italia all’Unione monetaria europea ha inciso in profondità sulla sovranità in materia economica dello Stato, su tutti gli ambiti di tale sovranità: la sovranità monetaria, la sovranità finanziaria, la sovranità economica.
Ciò è evidente per quanto concerne la sovranità monetaria: con l’adesione all’UEM il Paese ha del tutto rinunciato ad un potere che storicamente ha rappresentato un meccanismo essenziale (anche se usato a volte in modo perverso) della politica economica dello Stato.
Ma anche in materia di finanza pubblica, con la sottoscrizione del patto di strabilità dei protocolli per il contenimento dei disavanzi pubblici eccessivi (che ha rappresentato una condizione essenziale per l’adozione della moneta unica) l’Italia ha rinunciato ad una parte della propria sovranità di bilancio. Perché se è indubitabile, come è stato segnalato dalla dottrina, che non è corretto sostenere che con il Trattato di Maastricht e con i successivi protocolli sia stato introdotto un formale vincolo al pareggio del bilancio dello Stato, tali innovazioni non possono essere declassate a novità di carattere meramente pattizio e procedimentale, come pure alcuni autori hanno tentato di fare. La fissazione di una regola che per quanto articolata, “procedimentalizzata” e “flessibilizzata” rimane una regola di natura comunque quantitativa, la previsione di una complessa trama di rapporti fra Stati ed Unione europea nella fase di fissazione degli obiettivi di indebitamento, quanto in quella di verifica dei risultati ed in quella, ancor più delicata di applicazione delle sanzioni in caso di disavanzi eccessivi, ha radicalmente compresso la discrezionalità finanziaria dello Stato, introducendo nella politica di bilancio elementi di eterodeterminazione che incidono profondamente sulla sua sovranità.
Ma a ben vedere un processo analogo, ancorché meno profondo e spettacolare, ha riguardato anche la sovranità dello Stato nella politica economica. In particolare, con intensità crescente nel corso degli ultimi vent’anni, l’Unione Europea è intervenuta, in forza delle previsioni di cui agli articoli 81 e 82 del Trattato, in modo assai incisivo sulla politica della concorrenza riferita alle relazioni economiche che si svolgono nella spazio economico europeo ma anche in quelle interne ai singoli stati membri. E gli interventi comunitari in questa materia hanno determinato la progressiva erosione di una parte assai significativa dello strumentario di politica economica ed industriale che era stato ampiamente utilizzato nel primo cinquantennio della Repubblica. In particolare oggi è molto più rigoroso e delimitato lo spazio entro il quale lo Stato può far ricorso ai sussidi pubblici in favore di imprese private e alla gestione diretta di attività di impresa attraverso la partecipazione a società commerciali o la creazione di enti pubblici economici.
Ed infatti, sebbene il trattato dell’Unione europea rimanga sostanzialmente indifferente rispetto al regime proprietario delle imprese (art. 295) e si occupi degli aiuti pubblici alle imprese solo in relazione ai possibili effetti negativi sul processo di costruzione del mercato unico (art. 87), negli ultimi anni la politica di apertura dei mercati e di promozione della concorrenza ha indotto l’Unione a porre limiti molto stringenti all’intervento degli stati. In particolare sia l’erogazione di sussidi ad imprese (pubbliche o private) sia la gestione diretta di attività economiche da parte dello Stato (anche nella forma della partecipazione indiretta o della società mista) è stata rigidamente ancorata alla categoria del servizio di interesse economico generale, ovvero del servizio che, per la presenza di un market failure, non può essere completamente remunerato dal mercato.
Ma in tal modo, pur partendo dalla semplice prospettiva della tutela del mercato e della concorrenza interna, l’Unione Europea ha finito per assumere su di sé la funzione, assai più delicata e tipicamente costituzionale, di delimitare l’area e di fissare i criteri dell’intervento dello Stato in economia, di regolazione dei rapporti fra stato e mercato, che poi altro non sono che una specifica categoria di rapporti fra autorità e libertà.
Occorre cambiare la nostra Costituzione economica?
Alla luce delle considerazioni svolte la risposta alla domanda che da il titolo al convegno potrebbe apparire scontata. Rispetto al 1948 sono profondamente cambiati tutti gli elementi fondamentali del contesto nel quale la Costituzione economica è stata redatta, e sembrerebbe quindi naturale procedere ad un suo aggiornamento.
E’ in primo luogo cambiata in profondità la cultura politica generale del Paese. Oggi sono venute meno le ragioni storiche della Costituzione armistiziale. Oggi i valori dell’economia sociale di mercato, per quanto declinati in modo differente, sono entrati stabilmente a far parte della coscienza politica condivisa del Paese.
E’ cambiato anche il contesto economico internazionale che, in forza della sua sempre maggiore integrazione riduce per forza di cose gli spazi di autonomia delle politiche economiche nazionali che, per i forti legami di interdipendenza, tendono necessariamente a convergere.
Ma sono probabilmente i vincoli di natura monetaria finanziaria ed economica derivanti dalla nostra partecipazione all’Unione europea ad avere maggiormente inciso nel processo di obsolescenza della nostra Costituzione economica.
Eppure nonostante l’evidenza di tali ragioni, il tema della Costituzione economica non è mai riuscito ad entrare stabilmente da protagonista nel dibattito politico. Se gli ultimi vent’anni sono stati disseminati da tentativi più o meno riusciti di porre mano ad un aggiornamento, anche profondo e complessivo, della nostra Costituzione il tema della riforma della Costituzione economica è sinora rimasto ai margini, terreno per la riflessione degli studiosi o, al massimo, per iniziative politiche temerarie o comunque episodiche. Eppure per il raffreddamento del confronto politico sui temi economici e, per la minore incidenza della Costituzione economica sugli immediati equilibri politici e di potere, dovrebbe essere più agevole raggiungere un’ampia intesa costituente proprio su questo terreno. Viceversa sembra quasi essere di fronte ad una sorta di interdetto linguistico, ad una rimozione culturale del tema.
Quali sono le cause di tale fenomeno? Probabilmente, la vera ragione del prevalente disinteresse sui temi della Costituzione economica è di mera tattica politica e risiede nella diffusa convinzione che la questione presenti un rapporto costi – benefici assai sfavorevole. Nonostante l’evoluzione della cultura politica del Paese, nonostante il tramonto delle ideologie novecentesche, nonostante la generale accettazione dei sistemi economici capitalistici (pur con tutte le sfumature, le correzioni ed i distinguo possibili), nonostante la convinta adesione all’Unione Europea, alla sua cultura economica ed ai suoi vincoli politici, è infatti probabile che l’apertura di questo capitolo riaprirebbe vecchie fratture e causerebbe nuove lacerazioni, con ciò determinando un costo politico non giustificato dal beneficio che potrebbe ragionevolmente sperarsi di conseguire. In effetti, tutto sommato grazie a quei fattori di cambiamento descritti, ed in particolare grazie alla disciplina europea, negli ultimi vent’ anni il nostro Paese sembra aver raggiunto un equilibrio accettabile nella finanza pubblica, nell’apertura del mercato e nelle liberalizzazioni, nell’arretramento dello Stato imprenditore.
Si tratta di argomenti ispirati alla "ragion politica", che hanno un indubbio fondamento, ma che non possono far dimenticare i costi ed i problemi causati dall’attuale stato di dissociazione fra la Costituzione economica formale e la Costituzione economica materiale. Se è vero infatti che i vincoli europei hanno consentito un assestamento del nostro sistema ed un recupero delle principali criticità accumulate nel corso del tempo è altrettanto vero che la logica stessa dei vincoli europei è intrinsecamente diversa da quella delle Costituzioni. Ciò che conta in sede europea è garantire un adeguato processo di convergenza fra i sistemi economici dei paesi membri (e soprattutto di quelli dell’area Euro) al fine di scongiurare il rischio che le divaricazioni fra le aree economiche ed i comportamenti opportunistici di alcuni paesi possano minare la stabilità del processo di unificazione economica e monetaria. Una logica di tipo interstatuale, "pattizio" e tutta focalizzata sul conseguimento di un risultato minimo accettabile per gli altri partner, sostanzialmente indifferente alle modalità di conseguimento del risultato medesimo. Affatto diversa è la logica costituzionale tutta incentrata sulla fissazione di garanzie nei rapporti fra lo Stato ed i cittadini e nei rapporti fra i cittadini. Una logica – quella costituzionale – in cui alla fissazione di diritti ed obblighi reciproci si accompagna necessariamente la definizione di regole idonee a rendere efficiente e trasparente il procedimento per il conseguimento del risultato finale.
In questo senso, occorre riconoscere come l’equilibrio raggiunto grazie ai vincoli europei sia in una certa misura precario e sub ottimale. E che si non tratti un equilibrio stabile, di un traguardo raggiunto in modo definitivo ed irreversibile, appare difficilmente contestabile proprio in questi giorni di fronte alle turbolenze finanziarie e valutarie connesse alla crisi economica greca. Ma si tratta soprattutto di un equilibrio sub ottimale poiché i vincoli europei per quanto rigorosi ed effettivi non hanno, e non possono avere, quella capacità conformativa propria di una Costituzione. Basti pensare alle tematiche di finanza pubblica relativamente al quale i vincoli europei si concentrano esclusivamente sul risultato quantitativo in termini di indebitamento delle pubbliche amministrazioni, e sono del tutto indifferenti alle procedure, ai rapporti istituzionali fra Governo e Parlamento, alle relazioni fra i diversi livelli di governo, al rapporto fra Stato impositore e cittadino contribuente, la cui puntuale definizione influisce non solo sulla concreta possibilità di conseguire l’obiettivo quantitativo definito in sede europea, ma anche e soprattutto sulla qualità e sulla trasparenza delle scelte operate per conseguire tale obiettivo quantitativo.
Ma analoga debolezza si può riscontrare anche sul terreno delle politiche per la concorrenza e per il mercato, relativamente al quale la disciplina di fonte europea oltre a concentrarsi per forza di cose sui profili generali e sulla dimensione continentale appare soprattutto assistita da meccanismi di tutela e di garanzia molto più complessi e meno efficaci di quelli nazionali. Non possono, ad esempio, sorprendere, nonostante la produzione normativa e giurisprudenziale europea in materia di imprese pubbliche, aiuti di stato e servizi economici generali, i dati pubblicati nei giorni scorsi dal Dipartimento della pubblica amministrazione e dell’innovazione secondo i quali il numero complessivo di società o di consorzi controllati o partecipati dallo Stato o da altri enti pubblici nel 2009 sia passato 6752 a 7106 con un aumento del 5% su base annua. Non è cioè un caso che terminata da tempo la stagione dello Stato imprenditore, delle partecipazioni statali e dei fondi di dotazione in favore degli enti di gestione, assistiamo comunque da diversi anni all’espansione di quella sorta di "socialismo municipale", rispetto al quale i ripetuti tentativi di riformare i servizi pubblici locali si sono rivelati insufficienti.
In questi giorni si è improvvisamente acceso il dibattito sull’opportunità di riformare l’articolo 41 della Carta, da alcuni ritenuto causa di eccessiva regolazione delle attività economiche e quindi di scarsa competitività del sistema. La questione è complessa. Da un lato non c’è dubbio che la formulazione dell’articolo ed in particolare quella del suo terzo comma indichi l’orientamento in favore di un forte interventismo dello Stato in economia. E del resto, rileggendo i lavori dell’Assemblea costituente, non stupisce il fatto che non siano state accolte le proposte avanzate da Luigi Einaudi e dagli altri costituenti liberali finalizzate a restringere l’intervento pubblico alle situazioni di monopolio di fatto o a sancire in via generale che la legislazione in materia economica deve essere finalizzata a "difendere gli interessi e la libertà del consumatore" (emendamento dell’onorevole Cortese). Dall’altro non deve essere dimenticato che la formulazione dell’articolo nasce come tentativo di arginare le proposte dirette a sancire in modo organico il principio della pianificazione economica, al punto che l’onorevole Arata nell’illustrare il testo dell’emendamento, che poi diverrà la formulazione definitiva del terzo comma, richiami (anche se con una qualche forzatura) nientedimeno che Friedrich August von Hayek.
Si tratta di un terreno assai delicato rispetto al quale, al di là della ricostruzione dell’articolo 41, non può essere trascurato il rischio che un malintesa cultura del mercato, l’ipostatizzazione della categoria astratta della concorrenza perfetta, la dilatazione impropria del concetto di fallimento del mercato, la tentazione costruttivistica di affidare alla legislazione la creazione dell’ordine sociale (ed economico) ottimale, finisca per produrre esiti opposti rispetto alle intenzioni. In particolare, in forza di quello che il prof. Cintioli ha efficacemente definito in un libro pubblicato proprio in questi giorni, il “paradosso della libertà di concorrenza”, la riscrittura delle norme in materia di libertà di impresa, ed in particolare la sanzione costituzionale del principio della concorrenza, potrebbe paradossalmente finire per appesantire il carico regolatorio e burocratico che grava sulle attività economiche.
Ma le ragioni che militano a favore di un intervento riformatore della Costituzione economica non sono solo di natura concreta. Proprio la funzione identitaria ed assiologia della nostra Costituzione ci induce a ritenere che solo quando la maturazione della coscienza economica nazionale registratasi negli ultimi decenni avrà trovato un’adeguata traduzione in principi e precetti costituzionali potremo ritenere compiutamente concluso il lungo processo di transizione compiuto dal Paese.
E da ultimo non si può far a meno di osservare che ritenere inutile porre mano alla Costituzione economica perché questa è da considerarsi ormai irrilevante rispetto ai processi economici in atto, quasi fosse un ferrovecchio ormai irrecuperabile, sarebbe per la nostra Carta fondamentale il peggiore insulto.