Perché fa comodo tenersi il “Porcellum”

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Perché fa comodo tenersi il “Porcellum”

Perché fa comodo tenersi il “Porcellum”

21 Gennaio 2013

Siccome si andrà a votare con la vecchia legge elettorale (il cosiddetto porcellum), è forse opportuno svolgere alcune osservazioni sul tema, per intendere meglio i difetti della legge e capire anche la logica di alcune recenti decisioni politiche.

Sarà bene cominciare dall’inizio. Come forse non tutti ricordano, la modifica della legge elettorale fu richiesta nel 2005 dall’Udc come contropartita per non ostacolare il progetto di riforma costituzionale messo a punto dal governo. Non è il caso di sottolineare come una simile pretesa fosse ricattatoria, più giusto è rilevare che si trattava di un modo di procedere coerente con il credo partitocratico della formazione centrista dell’on. Casini. Dal 1994 in avanti, grazie alla legge elettorale parzialmente maggioritaria varata a colpi di referendum nel 1993 e alla discesa in campo di Berlusconi, era iniziata una riscrittura di fatto della forma di governo. Ma proprio nel momento in cui si cercava di completare l’opera con una riforma costituzionale (forse non esaltante, ma che prevedeva comunque un rafforzamento dell’esecutivo e un superamento del bicameralismo) si faceva il possibile per renderla inefficace resuscitando la proporzionale. Insomma, una magnifica applicazione del precetto leniniano: "un passo avanti, due passi indietro".

In soccorso dell’Udc giungeva puntualmente Calderoli. Il deputato leghista, infatti, sistemava la legge in modo da favorire l’ingovernabilità, aumentando il potere di coalizione (ovvero di ricatto) dei partiti minori. Le soglie di accesso previste dalla legge scendono in modo drastico nel caso di alleanze e apparentamenti. Se ci presenta da soli alla camera occorre il 4%, se ci presenta coalizzati la soglia si abbassa a un risibile 2% (al Senato le percentuali sono il doppio). A complicare le cose arrivava poi il niet dei costituzionalisti del Quirinale che obbligava a sostituire il premio di maggioranza nazionale per il Senato con premi regionali, aumentando il rischio di maggioranze diverse nei due rami del parlamento.

Sarà il caso di ripeterlo, la legge elettorale vigente è criticabile perché non garantisce la governabilità, non perché presenta liste bloccate che non danno spazio a preferenze. Solo un centrista intemerato può avere nostalgia per il cannibalismo di lista della prima repubblica dove, in un quadro di tolleranza consociativa tra i principali partiti, le campagne elettorali si risolvevano in feroci contese intrapartitiche. L’unico pregio della legge attuale, l’indicazione del premier sulla scheda, è del tutto insufficiente ad assicurare maggioranze stabili, sorpattutto in mancanza di altri correttivi istituzionali (regolamenti parlamentari meno lassisti, modifica delle procedure di scioglimento).

Per avere una democrazia dell’alternanza una condizione necessaria (anche se non sufficiente) è quella di sottorappresentare le estreme in parlamento. Così avviene in tanti paesi europei paragonabili per dimensioni e tradizioni al nostro (Francia, Spagna, Gran Bretagna). Nel caso del porcellum, invece, le estreme vedono aumentare il loro potere di coalizione e possono, come nel caso del Senato, risultare decisive. Stando così le cose, si capisce perché Berlusconi abbia insistito tanto per stringere un patto di alleanza con la Lega, perché la lista Monti (al contrario di quello che voleva Passera) abbia imbarcato finiani e Udc, perché il Pd abbia come interlocutore Vendola. In ogni caso a risultare conveniente è il patto è leonino e non quello virtuoso.

Di modificare la legge si è parlato a lungo nei mesi scorsi poi, man mano che la discussione andava avanti, in modo sempre più stanco e incoerente, è apparso chiaro che nessuna delle forze in campo aveva davvero l’intenzione di farlo. Adesso si andrà a votare senza che sia stata rimossa la ragione prima dello squilibrio del sistema politico italiano: l’indebita proliferazione di sigle o movimenti. Il pullulare di simboli e di partitelli fatti in casa non è sintomo di effervescenza politica o (men che meno) di vivacità culturale, ma solo il segno sicuro dell’incombente trasformismo.