Perchè Fatah non può garantire la pace

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Perchè Fatah non può garantire la pace

11 Agosto 2007

Esiste oggi una finestra di
opportunità per la pace tra israeliani e palestinesi? Mettiamola così: in
termini diplomatici, varrebbe la pena guardare attraverso questa finestra ma,
in termini analitici, non credo che qualcuno sia in grado di attraversarla. Dalle
difficoltà della situazione attuale scaturiscono due problematiche la cui
disamina, tuttavia, può contribuire a rendere più comprensibile la vicenda. La
prima riguarda il logico contro il reale, la seconda il diplomatico contro
l’analitico.         

Iniziamo da quella che agli
osservatori esterni può sembrare una valutazione logica di quanto accade oggi. Corrisponde
a qualcosa del genere: il controllo della West Bank da parte di Fatah e
dell’Autorità Palestinese (Anp) sta prendendo seriamente forma. Hamas si è
impadronita della Striscia di Gaza. Le infrastrutture palestinesi sono state
devastate. Non sembrano esserci progressi verso la pace o uno stato
indipendente. Alla luce della crisi in atto, è logico che la leadership di
Fatah, guidata dal “presidente” Mahmoud Abbas e dal primo ministro Salam Fayyad,
che pare essere un moderato, cerchi di dar vita a un nuovo corso. Possono
consolidare la stabilità nella West Bank e rafforzare l’inquadramento delle
forze militari di cui dispongono, utilizzare gli aiuti finanziari
internazionali per migliorare le condizioni di vita della popolazione,
costruire scuole e ospedali, creare le condizioni per lo sviluppo economico. E
possono pacificarsi con Israele per conseguire uno Stato palestinese. Possono
dire ai palestinesi: “Vedete come noi provvediamo al vostro bene al contrario
di Hamas? Vi abbiamo garantito tutti questi benefici e per questo naturalmente
dovete supportarci”. Ecco il lieto fine, il sipario si chiude con la standing
ovation del pubblico. Ai giudizi positivi dei mezzi di comunicazione, seguono i
premi Nobel.

Il punto però è che questo tipo
d’approccio considera la politica palestinese come una scatola nera senza prendere
in considerazione le sue dinamiche interne. O, in altre parole, tale
interpretazione è assolutamente logica ma priva di aderenza alla realtà. E’
bene ricordare, poi, che si tratta precisamente dello stesso approccio
utilizzato per giustificare il processo di pace di Oslo negli anni ’90. Yasir
Arafat e l’Olp erano alle strette e correvano il rischio di scomparire. Non
potevano dunque non considerare positivamente la disponibilità della comunità
internazionale a salvarli conducendoli sul versante della moderazione. L’idea
era che se Arafat si fosse trovato a governare il suo popolo – creando posti di
lavoro, provvedendo alla manutenzione delle strade e alla raccolta
dell’immondizia – avrebbe spontaneamente moderato le sue posizioni fino al
raggiungimento di un accordo di pace complessivo.     

E’ vero che Abbas è più
flessibile e meno radicale di Arafat, ma è anche molto più debole. Ha ammesso
egli stesso che il suo governo non è nelle condizioni di fermare gli attacchi
terroristici contro Israele dai territori che si presuppone siano sotto il suo
controllo. Fatah è talmente fossilizzata, frammentata e corrotta che non è
capace di cambiare il corso degli eventi. Né la gran parte dei suoi uomini di
vertice lo desiderano. Preferirebbero mettersi in tasca i soldi degli aiuti
internazionali piuttosto che impiegarli per opere concrete. E non vogliono essere
considerati traditori della causa ricercando la moderazione. Non c’è modo
insomma di ottenerne il placet a un accordo di pace che ponga fine al
conflitto. Si può sperare almeno che prendano provvedimenti non così
impegnativi come fermare gli attacchi contro Israele o ordinare ai media di
smettere d’incitare il terrorismo. Tuttavia, anche queste modeste aspettative
con molta probabilità rimarranno deluse.

Tutto ciò ci porta alla seconda
questione. Secondo l’analisi sin qui effettuata i grandi sforzi diplomatici
compiuti finora crolleranno su loro stessi. Significa che non si dovrebbe
neppure tentare? In diplomazia si possono fare cose con la consapevolezza che
saranno destinate a fallire se servono comunque a qualche scopo e non
pregiudicano gli interessi altrui. Al momento, questo significa dialogare con i
paesi arabi nel tentativo d’incoraggiarli a ridurre la tensione e a fare dei
passi in avanti in direzione della pace, e significa puntare su Fatah e su
l’Anp per verificare se qualche progresso può essere fatto verso una soluzione
politica del conflitto.

Ci sono pure obiettivi più
immediati da raggiungere e che oggi sono a forte rischio: aiutare Fatah a
sopravvivere perché è pur sempre preferibile ad Hamas (sebbene le differenze
possono essere più sfumate di quanto comunemente si creda); spingerlo a fermare
il terrorismo dalla West Bank e ad attenuare la propaganda antisraeliana e
filoterrorista dei media e delle istituzioni palestinesi. Inoltre, dimostrare
che Israele e l’Occidente desiderano davvero una pace giusta, e che per questo
forse sono disposti a porre le basi per uno sforzo di lungo periodo, è un
ulteriore elemento che convince della bontà delle vie diplomatiche.   

Tale impostazione richiede
equilibrio e una forte dose di scetticismo, basato sulla considerazione che la
pace definitiva è lontana decenni e che la strada intrapresa da Fatah verso il
suicidio politico appare inarrestabile. Per questo è necessario non abbindolare
l’opinione pubblica facendole credere che la pace è vicina e che ci siano anche
buone possibilità di raggiungerla. I politici non devono perdere il cervello
entrando in competizione per elaborare piani di pace, organizzare conferenze ed
elargire finanziamenti, iniziative queste che si risolveranno come sempre in un
buco nell’acqua. Non bisogna far finta che Abbas sia un grande uomo di pace o
che Fatah sia un raggruppamento di moderati. Non bisogna dar seguito al falso
mito che la pace dipende dalle concessioni d’Israele e quindi non bisogna
avventurarsi in concessioni pericolose e correre rischi inutili per rafforzare
la fiducia reciproca o dare prova di benevolenza.     

Si può dire, paradossalmente, che
il risparmiare ai leader di Fatah una fine violenta e sanguinosa non sia
condizionato all’accettazione da parte loro della via delle riforme e la
moderazione.   Sembra piuttosto che Fatah
stia facendo un favore agli americani e agli israeliani accettando il loro
aiuto senza che in cambio gli venga richiesto un cambiamento di rotta.

Dalla direzione imboccata dalla
crisi, per quanto l’idea di fondo della strategia abbia un senso, già
s’intravedono quelli che, con ogni probabilità, saranno gli sviluppo futuri: i
piani di pace finiranno nel dimenticatoio, il denaro verrà sprecato, le vittime
si moltiplicheranno e il mondo avrà una percezione sempre più mistificata della
natura del conflitto che in realtà si protrae a causa dell’oltranzismo dei
palestinesi.

Barry Rubin è direttore del Global Research in International Affairs Center (GLORIA) ed editore del Middle East Review of International Affairs Journal (MERIA) e dei Turkish Studies.