Perché gli italiani si sentono perseguitati dalle tasse
22 Ottobre 2007
Con una politica fiscale dissennata, questo governo ha fatto di tutto per inimicarsi professionisti e imprese. Basta pensare all’IRAP.
Nella storia delle democrazie non sono mai mancate le battaglie combattute a causa delle tasse, vuoi quelle vere e sanguinose, vuoi quelle metaforiche e simboliche. Basti pensare al processo che ha avviato la Rivoluzione Americana, creando il primo Stato moderno al mondo fondato – tra l’altro – su un’aspirazione di libertà fiscale.
Molto più in piccolo, senza bisogno di varcare confini e attraversare oceani, quando la Casa delle Libertà vinse le penultime elezioni, è pacifico che vi riuscì sull’onda di una promessa, quella del taglio generalizzato delle imposte sui redditi fatta da Berlusconi e firmata da Bruno Vespa. Quando cinque anni dopo, perse sul filo di lana, nessuno dubita che la causa furono sempre le imposte. Non quelle aggiunte – in questo il governo Berlusconi, a differenza di questo, non demeritò – bensì quelle non tagliate.
Come attenuanti valsero a poco le riforme pesanti che pure aveva varato: diritto fallimentare, diritto societario, pensioni, codice del consumatore e tante altre. E a nulla servì la congiuntura economica sfavorevole: secondo una logica semplice e lineare, il governo non venne confermato.
Non sono passati che pochi mesi, e sulla questione fiscale sta naufragando anche il governo Prodi. Già in balìa di un equilibrio precario e di numeri troppo esigui per consentire di governare il Paese, la compagine ministeriale sta interpretando nel peggiore dei modi la leva fiscale.
Lo sta facendo in una maniera visceralmente ideologica, tale per cui il ceto medio e produttivo ha l’impressione di essere perseguitato. La revisione degli studi di settore, gli accertamenti a tappeto sui conti correnti bancari, il restyling della disciplina sulle “società di comodo” , lo scavalcamento dello Statuto del Contribuente, l’introduzione generalizzata di previsioni sfavorevoli al contribuente con effetto retroattivo: non sono che perle di una collana tenacemente stretta attorno al collo dei piccoli e dei medi contribuenti.
La lista dei sassolini nelle scarpe è lunga: potremmo anche solo limitarci a parlare dell’aumento del bollo auto, vera e propria mazzata fatta passare sotto silenzio ma non per questo meno dolorosa. Preferiamo invece parlare dell’IRAP, perché non c’è bisogno di essere un tecnico della fiscalità per capire quanto questa imposta sia odiata dalla platea dei contribuenti dello stivale.
La ragione per cui è tanto odiosa è presto detta. E’ un’imposta che poggia su un presupposto tanto largo quanto sfuggente: lo svolgimento di un’attività produttiva organizzata. E’ su questo presupposto ambiguo (cosa è davvero un’attività produttiva? Quando è che è organizzata e quando no?) che sono fiorite alcune tra le dispute più accese degli ultimi dieci anni.
L’IRAP ha creato problemi su pressoché tutti i fronti.
Quello delle società, per le quali l’IRAP ha rappresentato un autentico flagello di Dio, tanto da costringerle a pagare soldi anche negli anni di profondo rosso. La ragione è semplice: nell’IRAP, a differenza dell’IRES, non si tiene conto dei costi del lavoro (salari, stipendi, contributi, ecc ecc..) né di quelli dell’indebitamento (interessi passivi, quote parte di canoni di leasing). E così chi si trova sul groppone numerosi dipendenti paga un fracco di IRAP, e guarda con invidia chi, per le caratteristiche della propria attività o per scelta previdente, non ha dipendenti in Italia. E non vi è chi non sappia che molte fabbriche sono migrate all’estero proprio per evitare di pagare IRAP, come ha ricordato Giulio Tremonti nella sua intervista al Sole 24 Ore di venerdì 19 ottobre.
Che dire, poi, della “stretta sugli interessi”, ultima trovata del duo Visco-Padoa Schioppa per fare da contrappeso all’effimero cuneo fiscale, grazie a cui le “holding industriali” non possono dedursi un bel po’ di interessi.
Già, il cuneo fiscale. Ve lo ricordate? In campagna elettorale Prodi promise di contenerlo e ridurlo. Astutamente, non specificò di quanto, né come. Nemmeno pensò di chiarire troppo il concetto, dato che il cuneo fiscale di per sé altro non è se non uno stilema giornalistico per indicare il costo fiscale dei lavoratori in capo alla società che li ha assunti.
Poi, d’un tratto, eccolo: una manciata di deduzioni per incrementi occupazionali e ricerca e sviluppo, tra l’altro anche abbastanza misere. E, questi giorni, la beffa. Viene abbassata l’aliquota (che passa dal 4,5% al 3,9%), ma la base imponibile è ancora una volta cambiata, e per giunta le deduzioni del cuneo sono ridotte in proporzione.
L’altro versante su cui l’IRAP è temuta e odiata è quello dei professionisti a partita IVA. Non dei grandi professionisti con centinaia di dipendenti, per i quali la situazione non si differenzia da quella delle società. Parliamo dei pesci piccoli, magari delle centinaia di tirocinanti e praticanti che si industriano a imparare un’arte e metterla da parte. Non hanno segretaria (usano quella dello studio con cui collaborano, anzi, la segretaria del “dominus”), non hanno computer (quello glielo passa lo studio), ma neanche così dormono sogni tranquilli. A Visco sembrano abbastanza organizzati, quel tanto che basta per farne dei soggetti passivi. E poco importa che la Cassazione recentemente abbia fatto chiarezza sul punto: finché al governo ci sarà Visco, l’IRAP continuerà a volteggiare nel cielo, a mo’ di avvoltoio.