Perché ha vinto Obama (e McCain non ha perso)
05 Novembre 2008
Bravo e fortunato, l’uomo giusto al momento giusto. Barack Obama ha molti meriti per il modo in cui ha condotto questa lunga e vincente campagna presidenziale. Pochi, invece, a nostro avviso, i demeriti di John McCain chiamato a svolgere una missione davvero impossibile. La vittoria del senatore dell’Illinois, d’altro canto, è figlia innanzitutto di due fattori indipendenti dalla volontà e dalle capacità dei due candidati: l’impopolarità del presidente uscente (il suo “job approval” non ha mai superato il 30 per cento in questo anno elettorale) e la crisi economica-finanziaria (la vera “sorpresa” che ha messo KO le speranze del ticket repubblicano). Per quanto il “maverick” McCain abbia cercato di distanziarsi da Bush, gli elettori indipendenti (quelli che hanno fatto la differenza negli Stati chiave) hanno visto dietro di lui l’ombra del presidente e i suoi fallimenti, da Katrina alla guerra in Iraq. Insomma, il coraggioso John McCain che non era stato piegato dal fattore “V” come Vietnam, si è dovuto arrendere al doppio fattore “W”, quello di George W. e Wall Street. Entrando più nel dettaglio della campagna elettorale, risultano evidenti alcuni punti di forza di Obama rispetto a McCain, riassumibili nel trinomio “soldi, organizzazione, cambiamento”.
Soldi. Nessun candidato nella storia americana ha potuto contare su una mole di fondi elettorali come quella di cui ha usufruito il candidato democratico: oltre 600 milioni di dollari. Una cifra da capogiro, raccolta con modalità non sempre cristalline ma straordinariamente efficaci, che ha permesso ad Obama una superiorità schiacciante negli spot elettorali e nell’organizzazione sul terreno. Rispetto a John Kerry che, quattro anni fa, fu travolto dagli attacchi della macchina elettorale di Karl Rove, questa volta il candidato democratico ha risposto colpo su colpo in tempi rapidissimi. Non solo. Grazie alle sue risorse pressoché illimitate ha contrattaccato su tutti i fronti: da Internet (usato sapientemente) alla tv (inondata di spot) al porta a porta (grazie ad un esercito di giovani obamiani). Così, ha potuto conquistare anche territori repubblicani: Ohio, Virginia e Florida sono lì a dimostrarlo.
Organizzazione. La campagna elettorale è stata condotta in modo estremamente ordinato. Fin dalle primarie democratiche, lo staff di Obama si è distinto per compattezza e identificazione con il proprio candidato. Dai top manager Axelrod e Plouffe, scendendo giù fino ai comitati locali, il nuovo presidente degli Stati Uniti ha potuto contare su una macchina che ha girato subito a pieno ritmo e che non si è mai inceppata, a differenza di quanto successo prima ad Hillary Clinton e dopo a John McCain. L’attenta organizzazione della campagna elettorale è stata anche sostenuta dalla freddezza mostrata da Obama nei momenti più difficili della campagna elettorale (vedi il caso dello scomodo pastore Wright).
Cambiamento. Questa volta, più di ogni altra cosa, gli americani volevano voltare pagina. Obama ha intercettato prima di tutti questa propensione al cambiamento e l’ha cavalcata al meglio. Si può discutere a lungo su che cosa significhi davvero questo “change” ripetuto al parossismo dal nuovo presidente (in fondo in fondo, le sue posizioni non si distanziano affatto da quelle dell’establishment del suo partito). Ma tant’è, il colore della pelle, la storia personale, la sua oratoria (questa sì straordinaria) rappresentano un’alchimia di innegabile fascino che ha colto nel segno. Da ultimo, vale la pena di spendere due parole sul ruolo dei mass media nel successo del candidato democratico. Per il polemista conservatore Victor Davis Hanson, questa campagna elettorale ha segnato “la fine del giornalismo”. Secondo l’editorialista della “National Review”, infatti, il senatore dell’Illinois non è mai stato vagliato dalla stampa a dovere. Dalle amicizie pericolose con l’affarista Tony Rezko e il radicale Bill Ayers ai suoi ondeggiamenti sul NAFTA, sulla pena capitale e il porto d’armi, Obama avrebbe sempre ricevuto una sorta di “lasciapassare” dai grandi mezzi di comunicazione. Riteniamo eccessivo parlare di “fine del giornalismo”, come fa Hanson, tuttavia è indubbio che i primi a promuovere il fenomeno dell’“Obamamania” siano stati proprio i protagonisti dell’informazione.
E veniamo a John McCain, l’unico candidato repubblicano che avrebbe potuto tenere (e infatti ha tenuto) testa dignitosamente ad Obama in questa tornata elettorale. Per questo, appare davvero ingeneroso quanto scritto dal neoconservatore William Kristol sul “New York Times” del 13 ottobre: “La campagna di McCain è una combinazione di incoerenza strategica e incompetenza operativa”. Considerando l’impopolarità di Bush e la disfatta del Grand Old Party al Congresso ci si poteva davvero aspettare di più dal senatore dell’Arizona? Qualcuno risponde di sì e accusa McCain di aver decretato la propria sconfitta con la scelta dell’inesperta Sarah Palin come vicepresidente.
La giovane governatrice dell’Alaska pur avendo acceso gli animi della base conservatrice, avrebbe (aspettando la conferma dei dati sui flussi elettorali) allontanato dal ticket repubblicano i conservatori moderati e gli indipendenti, tradizionale zoccolo duro di John McCain. In realtà, però, i candidati alla vicepresidenza non hanno mai cambiato il destino di un’elezione. E il voto del 2008 non sembra fare eccezione. L’ha cambiato invece il collasso del sistema finanziario statunitense. Una crisi che McCain, vuoi per suoi limiti, (ha sempre ammesso di non capire molto di economia), vuoi per defaillance altrui, (l’elettorato ha puntato il dito contro il governo in carica) non ha saputo affrontare nel modo adeguato. Ecco, allora, che un vice fornito di un solido curriculum sui temi economici (Mitt Romney?) avrebbe forse potuto dare qualche fastidio in più a Barack Obama. Ma non batterlo. Non quest’anno.