Perché il bipartitismo all’anglosassone non fa per noi
03 Agosto 2007
Il dibattito che infuria su quale possa essere la migliore legge elettorale per il nostro Paese sta tralasciandoo l’ipotesi del bipartitismo anglosassone. Questo sistema è senza dubbio frutto di un’evoluzione storica lontana dalla tradizione italiana ma è capace di offrire spunti assai interessanti,soprattutto in termini di governabilità e alternanza.
Grazie al sistema bipartitico (basato fino al XIX secolo sulla contrapposizione tra il partito conservatore dei Tories e quello liberale dei Whigs , poi soppiantato nel secolo scorso dal partito laburista) e al sistema elettorale maggioritario a turno unico (introdotto in via definitiva nel 1885), che ha favorito il bipartitismo, il corpo elettorale, quando vota per la Camera dei Comuni, dà anche un’indicazione a favore del leader candidato a Premier. In questo modo si garantisce il formarsi di una maggioranza assoluta in grado di portare avanti il proprio programma senza ostacoli.
I problemi di applicazione sorgono se si riflette su quali dovrebbero essere, in Italia, gli interpreti di questo copione. Da una parte il nascituro Partito Democratico; dall’altra un Partito unico del centro-destra che oggi appare lontano quanto mai.
La prima formazione, nascitura ma, verrebbe da dire, non ancora concepita, si profila come l’esito di una fusione fredda tra DS e DL che si scioglieranno formalmente mantenendo intatte gerarchie e nomenclature. Si sperava, dopo il teatrino tirato su in occasione delle primarie dell’Unione, in una competizione vera, in una contesa trasparente in cui si confrontassero i reali opinion makers di tutti i partiti riformisti che convergono nel centro-sinistra. Saranno invece delle primarie ad usum delfini , anzi ad usum Veltroni.
L’Ufficio tecnico ha escluso gli unici candidati scomodi che potevano ostacolare la trionfale cavalcata del sindaco di Roma, facendo terra bruciata attorno a lui. Antonio Di Pietro, Marco Pannella e Furio Colombo sono stati esclusi dalla contesa con motivazioni che dissimulano ragioni esclusivamente politiche.
I primi due ufficialmente perchè appartenenti a forze diverse che non hanno ancora annunciato il loro scioglimento, pur avendo dall’inizio sostenuto strenuamente tale progetto. In realtà sarebbero stati gli unici in grado di sparigliare le carte, di porre Veltroni dinanzi a questioni scomode come i delicati nodi etici e il rapporto con la magistratura adesso che i vertici dei DS sono coinvolti nei noti torbidi giudiziari. Ma non potranno farlo; al posto loro reciteranno il ruolo di (poco) agguerriti comprimari Enrico Letta e Rosy Bindi, sacrificati sull’altare veltroniano.
Prepariamoci dunque a celebrare la vittoria di Walter, l’inizio della “nuova stagione” (come recita il suo slogan) che dovrebbe rivoluzionare la sinistra italiana, ma si presenta già attraverso il ticket con Dario Franceschini, espressione chiara di spartizione correntizia
Suonano come una beffa le parole di Prodi nella lettera indirizzata ai candidati alla segreteria del PD. Il Presidente del Consiglio parla di un nuovo partito che include e accoglie tutti coloro che si riconoscono nei suoi valori. Ispira tenerezza tanta spavalderia proprio il giorno dopo lo stop al radicale e al leader de L’Italia dei valori.
L’estromissione di Pannella e della sua vena liberale delinea quale sarà l’anima del PD, una melassa composta da ex comunisti e dai cosiddetti teo-dem che difficilmente potrà rappresentare la provvidenza che promette di essere.
Sull’altro fronte, la CDL sembra non avere ancora compreso l’importanza di riunirsi in un solo partito, di offrire una voce unica agli elettori. Berlusconi, che in passato aveva parlato del Partito delle libertà come la sua eredità politica, oggi sembra ripudiare quell’idea, forse per il timore di perdere la leadership. Casini appare troppo impegnato a smarcarsi per guardare lontano e immaginare un futuro comune. L’unico a porre all’ordine del giorno la prospettiva unitaria è Fini, vox clamans in deserto, che non si rassegna a mettere da parte un progetto che potrebbe anche essere penalizzante per AN.
Per tutte queste ragioni il sistema elettorale inglese appare di ardua applicazione, laddove sono tanto complicati i processi di reductio ad unum dei partiti italiani, troppo legati a poltrone e prebende.