Perché il dibattito su Brexit è un’opportunità per rifondare l’Europa
18 Maggio 2016
di Daniela Coli
A leggere il “Corriere” pare che la Gran Bretagna, una nazione di bottegai che ha sconfitto Napoleone e Hitler, abbia perso il senso dell’interesse. La Brexit – dice Severgnini – rovinerà l’UK. Gli inglesi non sono più cool, sono diventati cafoni. Boris Johnson ormai sembra peggio di Salvini e di Grillo…
Boris Johnson, il tory leader di “Leave”, con una battuta da etoniano upper class, che non teme di parlare come il popolo, ha liquidato Obama in visita a Londra per sostenere il “Remain” e il TTIP. I francesi, dal canto loro, hanno già deciso di non firmare il TTIP e hanno votato la fine delle sanzioni alla Russia, incuranti del presidente americano.
“Anche gli inglesi purtroppo si sono messi a urlare” ha protestato Paolo Lepri, il 15 maggio, sul giornale che Luigi Albertini, innamorato del “Times”, voleva di respiro mondiale. Ma basta uno sguardo alla storia britannica per rendersi conto di come, da Enrico VIII in avanti, gli inglesi non abbiano certo temuto di scandalizzare.
La Brexit arriva nel momento di peggior crisi dell’Europa e di relativo declino degli Stati Uniti, il maggior sponsor esterno dell’Ue. Il successo di Trump, considerato dal “Corriere” il Boris Johnson americano, nasce dalla crisi dell’America di Reagan e Clinton, l’America dove la fiducia nel liberismo economico era tale da essere accettato anche da Bill, Clinton, che permise quelle liberalizzazioni finanziarie che hanno portato poi alla crisi del 2008.
Donald Trump rappresenta la risposta alla crisi della globalizzazione, la fine dell’America impero globale dopo le sconfitte mediorientali, il ritorno all’isolazionismo e al protezionismo. È la crisi di un modello di cui la Ue è stato un esperimento, messo a dura prova dalla crisi del 2008 e dalla guerra dei debiti sovrani, si pensi a quelli di stati come l’Italia e la Grecia.
È chiaro che il referendum su Brexit poteva essere evitato. Per la Gran Bretagna, che è già fuori da Schengen e dall’euro, David Cameron ha ottenuto di vedere rinegoziati vari trattati e soprattutto la concessione che il suo Paese sia esentato dall’impegno a perseguire una Unione europea sempre più stretta.
Di fatto, la Gran Bretagna è già fuori dall’Europa, sia che vinca il “Leave” o il “Remain”. Però Cameron ha subito indetto il referendum e la borsa tedesca si è fusa in tempi record con quella di Londra. Mentre da noi giornali autorevoli come il “Corriere” descrivono la Brexit come una follia che distruggerà l’UK, i tedeschi ritengono invece che l’uscita dell’UK dalla Ue avrebbe effetti devastanti sull’Europa.
Il capo economista di Deutsche Bank, David Folkerts-Landau – contro cui si è lanciato Federico Fubini sul “Corriere” del 6 maggio per un articolo apparso sul “Financial Times” in cui il tedesco definiva insostenibile il debito italiano per l’euro – all’inizio del 2016, a Londra, come riporta il “Telegraph” del 26 gennaio, ha detto che senza l’Uk l’Europa continentale diventerebbe una potenza di secondo rango, perché con Londra perderebbe uno dei centri più importanti del capitalismo globale.
Quindi, mentre da noi si sdrammatizza una eventuale Brexit, per la Germania sarebbe una catastrofe. Da qui gli inviti tedeschi all’Italia con Jens Weidmann della Bundesbank e Folkerts-Landau della Deutsch Bank a prendere misure per ridurre il debito.
All’Italia arriva anche l’invito di Ambrose Evans-Pritchard, sul “Daily Telegraph” del 12 maggio, a scegliere tra l’euro e la sopravvivenza, ovvero ad adottare la moneta parallela di cui si parla da tempo per la Grecia e il nostro Paese.
Ambrose Evans Pritchard è una firma autorevole e non può essere ignorato. Sul “Corriere” del 16 maggio, ad Ambrose Evans Pritchard ha risposto Michele Salvati, tra i fondatori del Pd, dicendo che l’Italia non può fare riforme radicali, perché il governo pagherebbe un prezzo politico troppo alto: in sostanza, il Pd perderebbe le elezioni.
Sul blog della LSE, in un articolo intitolato The Italian troublemaker, si scrive che Renzi fa una politica euroscettica ad uso interno, un giorno attacca Juncker, un giorno Merkel, ma non ha intenzione di fare riforme radicali, né una politica di rigore, perché, come ha detto nell’intervista al “Financial Times” del 22 dicembre 2015, tutti i premier che hanno fatto politiche di rigore hanno perso le elezioni politiche.
Il “Telegraph” del 15 maggio pubblica un lungo e colto articolo di Boris Johnson, che ricorda l’importante libro di Daron Acemoglu e James A. Robins, Why Nations Fail, dichiarando che le istituzioni europee ingrassano i funzionari della City e i dirigenti delle grandi imprese, ma impediscono la crescita dell’Uk e dell’Europa.
La prospettiva britannica e tedesca è dunque molto diversa da quella di Michele Salvati, per il quale sembra quasi più importante salvare il Pd che il Paese. Ma se Gerhard Schroeder nel 2003 non avesse anteposto l’interesse della Germania a quello del suo partito, varando con “Agenda 2010” una serie di riforme strutturali, Berlino non sarebbe mai diventata la potenza economica attuale.
Schroeder perse tutte le elezioni regionali e quelle politiche, ma cambiò completamente la Germania, che nel 2003 mostrava sorprendenti analogie con l’Italia di oggi.
Ha scritto Edmund Burke: “Lo Stato che non ha i mezzi per introdurre cambiamenti, non ha i mezzi per assicurare la propria conservazione”. È questo problema che l’Italia non riesce ad affrontare.
Brexit è già in atto, sia che a vincere sia “Leave” o “Remain”, perché ha messo in moto il processo dell’Europa a due velocità, mentre l’emergenza profughi ha prodotto la sospensione di Schengen e la decisione tedesca di adottare la misura ‘britannica’ di limitare l’accesso al sistema sanitario tedesco dei cittadini Ue.
In questo quadro, i toni muscolari, le geremiadi sull’eterno complotto tedesco, la sottovalutazione di Brexit, hanno solo l’effetto di portare il nostro Paese ai margini dell’Europa. Avessimo uno Schroeder o un Boris Johnson, non rischieremmo di diventare un’espressione di Google Maps, come oggi direbbe Metternich.