Secondo un progetto di federalismo fiscale votato bi-partisan (PdL + Pd) dal Consiglio regionale della Lombardia poco prima delle ultime politiche su proposta di Rosi Mauro (Lega Nord), ed ora fatto proprio dal neo-ministro delle Riforme per il federalismo Umberto Bossi, alle regioni potrebbero andare 160 miliardi di euro aggiuntivi rispetto all’attuale dotazione finanziaria, pari al 38% del totale delle entrate statali: questo progetto, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione (come modificato dalla riforma del Titolo V voluta dal centro-sinistra nel 2001) prevede l’assegnazione alla regioni del 15% delle imposte dirette (Irpef e affini), l’80% di quelle indirette (Iva) e della totalità delle accise sulla benzina, delle imposte sui tabacchi e di quelle sui giochi.
In pratica si tratterebbe dell’introduzione di una fortissima addizionale Irpef, del raddoppio della quota regionale dell’Iva (attestata oggi al 40%) e della totalità delle imposte relative a benzina, tabacchi e giochi, in luogo dell’attuale (complesso e farraginoso) meccanismo delle compartecipazioni. Come correttivo dei possibili “squilibri orizzontali”, cioè delle sperequazioni fra regioni ricche e regioni povere, è previsto un “Fondo perequativo nazionale o di federalismo solidale”, a cui sarebbero assegnati 13 miliardi di euro annuali. Più che apparire di forte impatto nei confronti delle regioni in grado di produrre un minor gettito fiscale, questa ipotesi rischierebbe di determinare degli “squilibri verticali” fra stato centrale e periferia, data l’entità netta dei trasferimenti alle regioni e le conseguenti decurtazioni delle disponibilità del potere centrale.
Certo, non siamo ingenui: l’esperienza ci ha insegnato che di queste cose si parla sempre all’inizio delle legislature, con il relativo contorno di clamori, salvo poi rilevare i più clamorosi “paludamenti” anche da parte di chi, a parole, si dichiarava massimalista e radicale…
Ma al di là di questa considerazione è forse interessante chiedersi quali siano, sul piano della teoria politica, gli argomenti forti a favore del federalismo fiscale. Ce ne sono almeno un paio difficilmente contrastabili, almeno per chi si colloca in una prospettiva liberal-democratica. La cultura autonomistica infatti associa la fiscalità con la territorialità, vale a dire vincola la ricchezza prodotta da una determinata comunità al luogo in cui questa è radicata, superando il principio in base al quale l’imposizione fiscale sarebbe una prerogativa esclusiva dell’amministrazione centrale, così come in passato lo era dei monarchi assoluti. Al di là di ogni possibile deriva ideologica, questa impostazione ha il vantaggio di congiungere ciò che nello stato centralizzato è separato, vale a dire il potere d’imposizione fiscale (per sua natura impopolare), che fa capo all’amministrazione centrale, e la facoltà di spesa (naturalmente popolare), per molti aspetti di competenza delle regioni e degli enti locali. In altre parole, in democrazia è sempre preferibile un sistema fiscale e finanziario in cui chi raccoglie i cespiti è lo stesso soggetto istituzionale che poi spende, per evitare di sostituire il senso di responsabilità e lo spirito civico con la capacità di lobby.
Detto diversamente, a livello locale in teoria si può avere un sistema finanziario calibrato sulle entrate, in cui i servizi pubblici sono organizzati in base alla capacità di quel territorio di produrre gettito fiscale, oppure un sistema calibrato sulla spesa, dove invece quel che conta è la capacità politica di drenare risorse dal potere centrale: nel primo caso si hanno le premesse di quello che gli anglosassoni chiamano accountability democratica, nel secondo si ha soltanto lobbismo territoriale (a conferma di questa analisi, la Commissione europea considera le regioni degli Stati membri come delle “lobby”, perché la dinamica che si attiva è proprio questa).
Nel caso in cui l’autonomia fiscale giunga poi alla facoltà di levare tributi da parte delle entità federate, come avviene negli stati federali anglosassoni (per esempio Usa e Australia), il fatto di avere più sistemi fiscali uno accanto all’altro produce il notevole vantaggio di metterli in concorrenza fra loro, determinando dinamiche vicine a quelle di mercato, in cui gli operatori sono spinti ad offrire i migliori servizi ai costi più bassi. Questo genere di concorrenza, in grado di “spostare” quote rilevanti di gettito fiscale, privato e in modo particolare di business, è un fenomeno da sempre presente all’interno degli Stati Uniti, nel rapporto fra stato e stato, ed è probabilmente uno dei prodotti più interessanti del federalismo, anche se raramente viene ricordato e adeguatamente sottolineato.