Perché il federalismo funzioni vanno messi tutti sulla stessa linea di partenza

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Perché il federalismo funzioni vanno messi tutti sulla stessa linea di partenza

01 Febbraio 2011

 L’accordo tra Governo e Comuni che disegna la fiscalità municipale non sarà valutato sulla base dei buoni propositi di una riforma federale – che peraltro tutti condividiamo – ma alla luce dei suoi effetti sulle tasche dei cittadini. Saggiamente, Tremonti ha detto la settimana scorsa che le addizionali Irpef comunali saranno decise dai sindaci e che alzarle non è un obbligo ma una facoltà. Insomma, libertà di scelta; ma, ahimè, solo per chi se la potrà permettere. Il tema è delicato e complesso e qui vorrei affrontarlo da un punto di vista ben preciso: quello delle amministrazioni locali del Mezzogiorno.

Dai dati dei bilanci consuntivi 2008 delle amministrazioni comunali italiane distinti per ripartizione geografica e pubblicati dall’ISTAT, emerge che la struttura delle entrate dei comuni del Sud e delle Isole è fatta, per metà, da contributi e trasferimenti, contro il 39% della media italiana. Allo stesso tempo, la quantità di risorse iscritte in bilancio che hanno natura tributaria sul totale delle risorse disponibili è maggiore al Sud rispetto a qualsiasi altra parte d’Italia. In altre parole, al Sud i sindaci fanno quadrare i conti sulla base delle risorse che vengono da Roma e sulle spalle della fiscalità locale perché impossibilitati a fare pagare i servizi (per esempio, le mense scolastiche o l’uso della piscina comunale) e impreparati a cogliere le opportunità che potrebbero derivare dalla gestione del patrimonio.

Anche dal lato della spesa emergono importanti differenze con le amministrazioni locali settentrionali. I comuni del Sud spendono meno, in termini pro capite, per servizi ma molto di più per spese generali di amministrazione e per la gestione dell’ambiente. L’elefantiasi di queste due voci di bilancio, dipende dal fatto che registrano quasi esclusivamente spesa per il personale, direttamente la prima e indirettamente la seconda, attraverso il contratto di servizio per l’igiene ambientale. Ne segue una forte rigidità strutturale dei bilanci delle amministrazioni locali, diffusa in tutto il paese, ma tanto maggiore al Sud dove l’ente locale si è accollato l’onere (che non gli è proprio) del sostegno alla domanda.

Questo quadro di forte criticità che non risparmia, per motivi diversi, nessuna area geografica del paese, è ulteriormente aggravato dalla manovra finanziaria dello Stato dell’anno scorso che ha tagliato i trasferimenti agli enti locali. Sebbene gli effetti non siano ancora misurabili – i tagli sono effettivi dal 1 gennaio di quest’anno – le conseguenze sono immaginabili, soprattutto sulla finanza locale ‘dipendente’ del Mezzogiorno. In assenza di una reintegrazione (impensabile) delle risorse romane, per far fronte alla rigidità dei propri bilanci e per evitare le conseguenze sociali dei tagli – non dimentichiamo che la spesa finanzia soprattutto stipendi – molte amministrazioni meridionali saranno costrette a rivolgersi ai propri contribuenti.

Poco male, si direbbe in un’ottica federalista: ecco l’occasione per mettere in funzione il principio della responsabilità fiscale e raddrizzare i tanti mali della finanza locale italiana nel Mezzogiorno. Peccato che questa lettura, altrimenti condivisibile, sia semplicistica e, soprattutto, insufficiente per creare le condizioni di una vera riforma fiscale della finanza locale.

Io vorrei lanciare nelle pagine de L’Occidentale una provocazione: l’occasione offerta dal federalismo fiscale non va perduta tanto più che, come ha detto il ministro Tremonti, il cammino verso una struttura federale dello Stato è irreversibile. Ma bisogna costruire un federalismo che metta le diverse aree del paese, per quanto possibile, su una stessa posizione di partenza, che consenta a tutti di giocare con le stesse regole. Per farlo è necessario essere coraggiosi. È il momento di riscrivere il contratto sociale tra Stato e comuni del Mezzogiorno accompagnando la maggiore libertà di scelta fiscale affidata ai sindaci con due provvedimenti impegnativi. Il primo, a carico del governo centrale, è la socializzazione dei costi imposti dalla riforma (com’è avvenuto con Alitalia), altrimenti questa libertà di scelta sarà solo sulla carta. Il secondo, a carico dei governi locali, è la realizzazione di nuove entrate attraverso una sana gestione del patrimonio e la spinta alle privatizzazioni dei servizi pubblici locali in modo da recuperare efficienza e opportunità di crescita economica, altrimenti mortificate dall’aumento delle imposte locali.

Se mancherà questo coraggio la riforma in senso federale della finanza pubblica italiana corre il rischio di impantanarsi nella palude delle rivendicazioni particolari che ciascun sindaco cercherà di negoziare a Palazzo Chigi o a Via XX Settembre. Rivendicazioni magari giuste, ma sempre incompatibili con l’architettura complessiva del sistema. O peggio, si corre il rischio che la riforma federale si areni nelle secche dell’insostenibilità, pericolose per l’esistenza stessa dall’unità nazionale.

Sebastiano Bavetta (Università di Palermo e University of Pennsylvania)