Perché il mondo ha ancora bisogno degli Stati Uniti
18 Febbraio 2012
di Robert Kagan
La storia dimostra che gli ordini mondiali, incluso il nostro, sono transitori. Raggiungono la vetta e poi entrano in declino, e le istituzioni che erigono, le convinzioni e “norme” che li guidano, i sistemi economici che sostengono – anche loro raggiungono la vetta e poi decadono. La caduta dell’Impero Romano condusse alla fine non solo del dominio Romano ma anche del governo di Roma e della sua legge, così come portarono alla fine di un intero sistema economico che si estendeva dall’Europa del Nord al Nord Africa. La cultura, le arti, anche il progresso scientifico e tecnologico, si interruppero per secoli.
La storia moderna ha seguito un simile schema. Dopo le guerre napoleoniche dell’inizio del XIX° secolo, il controllo britannico dei mari e l’equilibrio di potenza delle grandi nazioni del continente europeo fornirono relativa sicurezza e stabilità. La prosperità aumentò, così come le libertà individuali, e il mondo fu saldato da rivoluzioni del commercio e delle comunicazioni.
Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’era della pace acquisita e del liberalismo in espansione – ovvero della civilizzazione europea a due passi dal proprio apogeo – collassò in un’era di iper-nazionalismo, despotismo e calamità economica. Quella diffusione, un tempo cara, di democrazia e liberalismo si fermò e invertì il proprio corso, lasciando un piccolo gruppo di democrazie in inferiorità numerica e sotto assedio all’ombra del fascismo e di vicini totalitari. Certo, il collasso dell’Impero Britannico e dell’ordine europeo del XX° secolo non ha prodotto una nuova epoca buia – benché valga la pena ricordare che se la Germania nazista e il Giappone imperiale avessero vinto, tale eventualità si sarebbe potuta verificare – ma l’orribile conflitto che produsse fu, a suo modo, altrettanto devastante.
Domanda: la fine dell’attuale ordine a dominio americano sarebbe portatrice di minori scongiurabili conseguenze? Un numero sorprendente di intellettuali statunitensi, di politici e parlamentari abbraccia tale prospettiva con serenità. Esiste un senso diffuso che la fine di un’era a predominio americano, se e quando avverrà, non necessariamente significherà la fine dell’attuale sistema internazionale, costituito di un alto livello di libertà diffusa, e di una prosperità globale senza precendenti nella storia (anche nel mezzo dell’attuale crisi economica) e contraddistinto dall’assenza di guerra tra le maggiori potenze.
Il potere statunitense potrà diminuire,sostiene lo scienziato politico G. John Ikenberry, ma “le fondamenta soggiacenti il suo ordine liberale internazionale sopravvivranno e prospereranno”. Il commentatore Fareed Zakaria ritiene che benché l’equilibrio si stia muovendo contro gli Stati Uniti, le potenze emergenti come la Cina “continueranno a vivere dentro la cornice dell’attuale sistema internazionale”. E ci sono elementi provenienti da ogni angolo dello spettro politico – Repubblicani che chiedono un arretramento, Democratici che ripongono la propria fiducia nelle leggi e nelle istituzioni internazionali – che non riescono a capire che un “mondo post-americano” sarebbe molto differente da un mondo americano tout court.
Si ricordi il vecchio adagio: se qualcosa suona troppo bello per essere vero, allora qualcosa è troppo bello per essere vero. L’attuale ordine mondiale è stato largamente modellato dal potere americano e riflette gli interessi e le preferenze statunitensi. Se l’equilibrio di potenza trasla in direzione di altre nazioni, l’ordine mondiale cambierà per andare incontro ai propri interessi e preferenze. Nè si può – nè si deve – assumere che tutte le grandi potenze in un mondo post-americano saranno d’accordo sui benefici derivanti dalla preservazione dell’attuale ordine, o che esse abbiano le capacità di preservarlo anche qualora volessero.
Prendiamo una questione su tutte, la democrazia. Per decenni, l’equilibrio di potenza nel mondo ha favorito i regimi democratici. In un mondo genuinamente post-americano, l’equilibro si sposterebbe verso le grandi potenze autocratiche. Tanto Pechino, quanto Mosca già oggi proteggono dittatori come quello sirano, Bashar al-Assad. Se in futuro dovessero guadagnare maggiore influenza relativa, vedremo molte meno transizioni democratiche e molti più autocrati aggrappati al potere. L’equilibrio in un mondo nuovo, e multipolare, potrebbe essere favorevole alla democrazia se alcune delle democrazie in ascesa – Brasile, India, Turchia, Sua Africa – prendessero in mano il lavoro lasciato a metà da un’America in declino. E comunque non è detto che esse abbiano il desiderio o la capacità di farlo.
Che dire poi dell’ordine economico fondato sul libero mercato e la libertà di commercio? I più assumono che la Cina e altre potenze in ascesa che hanno beneficiato così tanto dal presente sistema decideranno di prendere parte nella sua preservazione. Non ucciderebbero la gallina dalle uova d’oro. Purtroppo, potrebbero non essere in grado di farne a meno. La creazione e la sopravvivenza dell’ordine economico liberale è dipeso, storicamente, dalle grandi potenze che sono allo stesso tempo disponibili e capaci di sostenere libertà di commercio e un’economia libera, spesso con il proprio potere navale.
Se un’America in declino non è in grado di mantenere la propria egemonia, che da lunga data esercita in alto mare, siamo certi che altre nazioni assumerebbero il peso e i costi di sostenere le proprie marine per occupare le posizioni vacanti? E se pure lo facessero, siamo sicuri che ciò produrrebbe uno spazio globale comune – o che piuttosto ciò non finirebbe per produrre invece maggiore tensione? La Cina e l’India stanno costruendo marine militari più grandi, ma il risultato, a oggi, è stata solo maggiore competizione, non maggiore sicurezza. Come ha notato su questo giornale (ndt. il Wall Street Journal) Mohan Malik, la loro “rivalità marittima potrebbe venire allo scoperto in dieci, vent’anni”, quando l’India dispiegherà una portaerei nell’Oceano Pacifico e la Cina ne dispiegherà una nell’Oceano Indiano. Il passaggio da oceano a dominazioni americana a una gestione di polizia messa in campo da più grandi potenze potrebbe essere una ricetta per più competizione e più conflitto piuttosto che per il mantenimento di ordine economico liberale.
E siamo poi sicuri che i cinesi diano veramente così tanta importanza a un sistema economico aperto? L’economia cinese potrebbe a breve diventare la prima al mondo, ma di certo sarebbe ancor lontana dall’essere la più ricca. La sua grandezza è il prodotto dell’enorme popolazione del paese, ma in termini pro-capite, la Cina rimane relativamente povera. Gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone hanno un reddito procapite di all’incirca 40,000 dollari Usa. La Cina poco sopra i 4,000 dollari, ponendola allo stesso livello di Angola, Algeria e Belize. Se anche le più ottimistiche delle previsioni si avverassero, il Pil pro capite della Cina nel 2030 non sarebbe ancora la metà di quello statunitense, portandolo ai livelli odierni di Slovenia e di Grecia.
Come hanno fatto notare Arvind Subramanian e altri economisti, ciò creerebbe una situazione storicamente senza precedenti. In passato, la più grande e dominante economia del mondo, era anche la più ricca. Le nazioni i cui membri sono in una posizione di tale vantaggio in un sistema economico senza particolare vincoli in termini relativi, subiscono meno la tentazione di perseguire politiche protezioniste e hanno più di un incentivo a mantenere il loro sistema aperto.
La dirigenza cinese, al vertice di un paese ancora povero e in via di sviluppo, potrebbe dimostrarsi meno incline a mantenere aperta la propria economia. Già oggi alcuni settori dell’economia cinese sono chiusi a investitori esteri ed è probabile che altri ne verranno chiusi in futuro. Perfino degli ottimisti alla Subramarian credono che il sistema economico liberale necessiti “qualche assicurazione” contro uno scenario nel quale “la Cina eserciti il proprio dominio sia capovolgendo le politiche precedentemente adottate, sia non rispettando l’obbligo ad aprire aree economiche che sono oggi altamente protette”. Il dominio economico americano è stato salutato dalla maggior parte del mondo perché, come faceva il criminale Hyman Roth ne “Il Padrino”, gli Stati Uniti hanno sempre fatto fare soldi ai proprio partner. Per questa ragione, una dominazione cinese potrebbe ricevere diversa accoglienza.
Un altro problema ancora è legato al tipo di capitalismo oggi esistente in Cina, il quale è altamente controllato dallo Stato, il cui scopo ultimo è la conservazione del potere del Partito comunista. A differenza delle ere britannica e americana, ove le maggior potenze economiche erano dominate in maggioranza da privati cittadini o compagnie, il sistema cinese è invece una copia dei regimi mercantilisti dei secoli passati. Lo Stato accumula denaro per mantenere in piedi il proprio potere e per pagare esercito e marina necessari per competere con le altre grandi potenze.
Benché i cinesi siano stati i beneficiari di un sistema economico internazionale aperto, potrebbero finire con metterlo a repentaglio semplicemente perché, in quanto società autocratica, la loro priorità è quella di preservare il controllo statale della ricchezza e il potere che ciò porta seco. Potrebbero decidere di uccidere la gallina dalla uova d’oro perché non riescono a discernere come tenere insieme l’uno e l’altro insieme.
E poi, che dire della lunga pace che è stata mantenuta tra le grandi potenze per più di sei decadi? Questo stato di cose, sopravvivrebbe in un mondo post-americano? Una bella fetta di commentatori che hanno salutato questo scenario pensano che la predominanza americana sarebbe sostituita da una qualche forma di armonia multipolare. Ma storicamente i sistemi multipolari non sono stati mai né particolarmente stabili, né particolarmente pacifici. Una sommaria parità tra le nazioni potenti è fonte di incertezza la quale conduce all’errore di calcolo. I conflitti nascono proprio quando emergono delle fluttuazioni in questa delicata equazione di potenza.
La guerra tra le grandi potenze è stato evento consueto, se non una costante, nei lunghi periodi di multipolarità compresi tra il XVI° secolo e il XVIII° secolo, culminanti in una serie di terribili e distruttive guerre europee figlie della rivoluzione francese e che si sono concluse con la disfatta di Napoleone nel 1815.
Il XIX° secolo è stato notevole per due periodi di pace tra le grandi potenze, fatti di quattro decenni ognuno, intervallati da conflitti maggiori. La Guerra di Crimea (1853-1856) fu una mini guerra mondiale, che coinvolse ben più di un milione di truppe russe, francesi, britanniche e turche, così come quelle di nove altre nazioni; produsse quasi mezzo milione di morti e molti di più in feriti. Nella Guerra franco-prussiana (1870-71), le due nazioni misero in campo all’incirca due milioni di truppe, di cui quasi mezzo milione perì o fu ferito.
La pace risultante da questi conflitti fu caratterizzata da un’alta tensione e da una competizione crescente, molta paura per lo scoppio di altre guerre e un aumento massiccio in armamenti sia di terra che di mare. Il picco fu raggiunto con la Prima guerra mondiale, il conflitto più distruttivo e mortifero che il genere umano avesse conosciuto sino a quel momento. Come ha fatto notare lo scienziato politico Robert W. Tucker, “Tale instabilità e moderazione a cui aveva contribuito tale equilibrio, rimaneva in piedi in ultima istanza sotto la minaccia dell’uso della forza. La guerra rimaneva lo strumento principe per il mantenimento dell’equilibrio di potenza”.
Vi è poco spazio di manovra per continuare a ritenere che un ritorno alla multipolarità nel XXI°secolo possa portare in dono più pace e stabilità rispetto al passato. L’era della predominanza americana ha mostrato che non esiste migliore ricetta per la pace tra le grandi potenze che la certezza di chi abbia il coltello dalla parte del manico.
Il presidente Bill Clinton lasciò la presidenza con la convinzione che l’obiettivo chiave per l’America fosse quello “di creare il mondo nel quale avremmo volute vivere quando non saremmo stato più in grado di essere l’unica super-potenza mondiale”, di prepararci per “quando avremmo dovuto condividere il palco”. Si tratta di una proposta che suona molto bene. Ma si può fare? In particolare, per le questioni che hanno a che fare con la sicurezza, le regole e le istituzioni dell’ordine internazionale raramente sopravvivono al declino delle nazioni che le hanno erette. Sono come impalcature intorno a un palazzo: esse non tengono il piedi il palazzo, è il palazzo che le tiene in piedi. Il sistema insomma resterà in piedi solo fintantoché coloro che lo sostengono avranno il desiderio e la capacità di difenderlo.
Molti esperti di politica estera vedono l’attuale ordine internazionale come l’inevitabile risultato del progresso umano, una combinazione di scienza e tecnologia in stato d’avanzamento, un’economia sempre più globale, il rafforzamento delle istituzioni internazionali, “norme” comportamentali internazionali in evoluzione e il graduale ma inevitabile trionfo della democrazia liberale sulle altre forme di governo – in summa, le forze del cambiamento che trascendono le azioni degli uomini e delle nazioni.
Certo, gli americani amano credere che l’ordine da loro scelto gli sopravvivrà perché intimamente buono e giusto – non solo per noi ma per tutti. In quanto americani tendiamo a dare per scontato che il trionfo della democrazia sia il trionfo di un’idea migliore, e la vittoria del capitalismo di mercato sia la vittoria di un sistema migliore, e che entrambi siano irreversibili. Ciò fa capire perché la tesi di Francis Fukoyama sulla “fine delle storia” è stata così attraente alla fine della Guerra Fredda e perchè continui ancora oggi a mantenere intatto il proprio fascino, nonostante sia stata smentita dai fatti. L’idea è che un’ineluttabile evoluzione non rende necessario l’esistenza di un ordine decente. Esso si dispiegherà e basta.
Non c’è nulla di inevitabile nel mondo creato dopo la Seconda Guerra mondiale. Nessuna divina provvidenza e nessun dispiegarsi di dialettiche hegeliane spinge al trionfo della democrazia e del capitalismo, e non esiste alcuna garanzia che tali assunti rimangano validi oltre la vita delle potenze che hanno lottato per essi. Il progresso democratico e il liberismo economico sono stati e possono essere invertiti e dissolti. Le antiche democrazie di Grecia e le Repubbliche di Roma e Venezia, tutte caddero sotto i colpi di forze più potenti o a causa di proprie insuccessi. L’ordine economico liberale in evoluzione d’Europa collassò tra gli anni ’20 e i ’30 dello scorso secolo. L’idea migliore non vincerà solo perché è la migliore idea. Essa avrà bisogno di grandi potenze che la sostengano.
Se e quando l’America entrerà in declino, le istituzioni e le norme che la potenza americana avrà sostenuto entreranno in declino a loro volta. O meglio, se la storia può esserci d’aiuto, potrebbero collassare tutte insieme in un processo di transizione verso un nuovo tipo di ordine mondiale, o di disordine. Scopriremmo allora che gli Stati Uniti erano essenziali per tenere in piedi l’attuale ordine mondiale e che l’alternativa al potere americano non era la pace e l’armonia ma caos e catastrofe – proprio quello a cui assomigliava il mondo giusto prima che l’America iniziasse a comandare.
Robert Kagan è senior fellow di politica estera alla Brookings Institution. L’articolo qui sopra è un’adattazione da “The World America Made”, pubblicata da Alfred A. Knopf. Copyright © 2012 di Robert Kagan.
Tratto da Wall Street Journal