Perché il piano di Bush per il MO rischia di fallire
23 Luglio 2007
di Efraim Inbar
Nel suo discorso del 16 luglio, il presidente degli Stati
Uniti, George W. Bush, ha annunciato l’ennesimo piano per cercare di risolvere
il conflitto israelo-palestinese. Il piano comprende la convocazione di una
conferenza internazionale di paesi moderati presieduta dal segretario di Stato,
Condoleezza Rice. L’iniziativa di Bush si basa sul rafforzamento del supporto
diplomatico e finanziario ad Abu Mazen e prevede un ruolo da supervisore per
Tony Blair, l’inviato speciale del Quartetto in Cisgiordania. Nella sua nuova
veste, l’obiettivo principale di Tony Blair è arrivare alla costituzione di uno
stato palestinese libero dalla corruzione e dalle milizie armate. Gli americani
ritengono che questa sia la linea d’azione giusta per indebolire il consenso di
cui i radicali di Hamas godono a Gaza, che così potrà ritornare sotto il
controllo di Abu Mazen che a sua volta porterà a compimento il paradigma dei
due stati.
Sfortunatamente, la ricetta americana poggia su alcune
convinzioni decisamente errate che ne rendono improbabile il successo. La prima
è che “la società palestinese può essere riformata con un intervento esterno”.
Le società mediorientali hanno già dato prova della loro resistenza ai
tentativi delle forze occidentali di cambiare le loro vecchie abitudini nella
gestione degli affari politici. E’ ingenuo credere che dinamiche politiche e
sociali radicate da secoli possano essere facilmente modificate dai ben
intenzionati ma presuntuosi occidentali. Il presidente Bush dovrebbe aver
imparato questa lezione dalla sua esperienza in Iraq. Cambiamenti all’interno
delle società mediorientali e di quella palestinese possono avvenire solo
dall’interno. Un’evoluzione positiva di questo tipo, dovesse un giorno prendere
piede, potrà realizzarsi pienamente solo dall’alto grazie a un governo
autoritario e non esportando la democrazia. Inoltre, la capacità degli Stati
Uniti di apportare mutamenti alle politiche estere finanche di piccoli paesi
non deve essere sovrastimata. Hafez Assad ha detto no al presidente Clinton a
Ginevra nel marzo 2000 e Yasser Arafat ha fatto la stessa cosa sempre con
Clinton a Camp David nel luglio successivo.
La seconda è che “l’assistenza economica ai palestinesi può
alleviare i problemi politici”. A partire dagli accordi di Oslo del settembre
1993, l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) ha ricevuto l’ammontare di aiuti
economici procapite più alto del mondo. Ma i miliardi di euro trasferiti
all’Anp sono stati sprecati e impiegati per finalità contrarie a quelle che i
finanziamenti si proponevano. L’Anp, al pari di tutti i paesi del Terzo Mondo,
è stata davvero abile a far confluire gran parte degli aiuti a coloro che ne
avevano meno bisogno. Memonide, il grande cattedratico ebreo dell’undicesimo
secolo, definì una chiara gerarchia degli atti di filantropia. L’atto
considerato più filantropico è quello finalizzato ad aiutare colui che ne
beneficia a divenire economicamente indipendente. La validità di tale
intuizione è stata confermata dalla storia degli aiuti umanitari del secolo
scorso, che dimostra come questi funzionino solo se il governo che li riceve li
usa con oculatezza e in maniera produttiva. Pertanto, è lecito nutrire forti
dubbi sul fatto che la nuova iniezione di denaro alla disfunzionale economia
palestinese proposta da Bush possa sortire buoni risultati.
La terza è che “Abu Mazen può diventare il protagonista del
cambiamento e che perciò merita il supporto dell’Occidente”. Il bilancio di Abu
Mazen da leader è davvero misero. Ha fallito nel raggruppamento dei servizi di
sicurezza in un organo unico come aveva assicurato e non ha dato seguito alle
promesse elettorali di combattere la corruzione. Il caos all’interno dell’Anp è
montato proprio durante la sua presidenza e la presa del potere di Hamas a Gaza
è segno ulteriore della sua debolezza. La scommessa americana su Abu Mazen è
ancora più azzardata di quelle effettuate in passato su Chiang Kai-shek o su
Batista. I palestinesi soffrono da quasi un secolo per l’inadeguatezza delle
loro leadership e hanno bisogno di un leader forte, un nuovo Ataturk, per
salvarli dalla crisi che li ha travolti. Purtroppo, di leader coraggiosi e visionari
all’orizzonte non se ne vedono.
La quarta errata convinzione è che “la società palestinese
può essere trasformata in breve tempo in una buona vicina d’Israele e che la stabilizzazione
interna è a portata di mano”. Dagli accordi di Oslo in poi, il sistema
educativo dell’Anp, i mezzi di comunicazione e il drammatico processo di
militarizzazione hanno gravemente danneggiato la psicologia del popolo
palestinese. Una società ipnotizzata dall’uso della forza e abituata agli
shaheed, i terroristi suicidi pronti a farsi esplodere tra gli odiati
israeliani, non potrà cambiare da una notte all’altra. Molti aspetti della
società palestinese si sono radicalizzati e la popolarità di Hamas è la prova
di questa deriva. Gli osservatori stranieri sottovalutano la funzione
dell’educazione nel preservare tra gli arabi il pregiudizio antisraeliano.
Anche paesi che hanno siglato trattati di pace con Israele, come Egitto e
Giordania, non hanno mutato il contenuto dei messaggi veicolato attraverso
l’educazione, sempre e comunque ostile allo Stato ebraico. Le relazioni
interpersonali, poi, che potrebbero contribuire a una migliore comprensione
reciproca, sono molto limitate. Di conseguenza, in mancanza di un cambiamento
radicale del sistema di socializzazione nei paesi arabi, Israele continuerà a
essere considerata come un avamposto straniero nella regione. Che gli interessi
nazionali o gli squilibri nei rapporti di forza siano alla base della
riluttanza verso qualsiasi forma di coesistenza con Israele può anche starci. Ma
queste condizioni possono variare al variare del corso degli eventi. A
differenza di Egitto e Giordania, dove politiche pragmatiche hanno condotto a
un accordo con Israele, le politiche palestinesi non sono pragmatiche e anzi sono
sempre più radicalizzate da Hamas e dalla giovane generazione militarista. Le
differenze tra Israele e i palestinesi sono insuperabili. Dopo aver subito la
campagna terroristica all