Perché in Iraq la vittoria è a portata di mano
25 Ottobre 2007
E’ giunto finalmente il momento di dichiarare vittoria su al Qaeda in Iraq? Solo qualche mese fa, sarebbe stato considerato folle porsi una domanda come questa, ma ora alcuni militari molto stimati, compreso il comandante delle Forze Speciali in Iraq, Stanley McCrystal, ritengono che sia quanto accade realmente sul campo a giustificarla. I generali non vogliono alimentare l’illusione che la guerra sia finita e insistono nel dire che c’è ancora molto da combattere, mettendo in guardia dal ritenere al Qaeda ormai agli sgoccioli, perché i terroristi che sopravviveranno saranno ancora in grado di uccidere i soldati della coalizione e gli iracheni. Nondimeno, è vero che in Iraq si respira un’aria di relativa tranquillità, anche in zone che erano date per perse poco più di un anno fa. Quanti hanno sostenuto che la sconfitta fosse definitiva è giusto che rivedano la propria posizione.
Per la precisione, quasi 13 mesi fa, il Marine più alto in grado responsabile dell’intelligence in Iraq scrisse che la già triste situazione nella provincia di Anbar sarebbe andata ancor più deteriorandosi se non si fosse provveduto a inviare una divisione aggiuntiva, insieme a ingenti nuovi aiuti economici. Oggi, i vertici dei Marine meditano su come andare via da Anbar, e non perché ormai la considerino una causa persa, ma perché lì al Qaeda è stata sconfitta.
A Fallujah, alcuni Marine, lamentandosi, si sono rivolti così a un ufficiale di mia conoscenza: “Non c’è più nessuno a cui sparare, signore. Se si tratterà solo di costruire scuole e ospedali, è a questo che serve l’esercito?”. Nell’area, gli sceicchi sunniti si sono uniti ai Marine per cacciare via Al Qaeda, e questo modello si è diffuso nella provincia di Diyala e anche in molti quartieri della stessa Baghdad, dove gli sciiti combattono i loro vecchi eroi dell’esercito del Mahdi.
Le truppe britanniche stanno per lasciare Bassora, e in molti si aspettavano che le milizie sciite sponsorizzate dall’Iran avrebbero imposto il loro brutale dominio sulla città. Ma questo non è successo. Il tenente colonnello Patrick Sanders, di stanza vicino Bassora, ha confermato che negli ultimi tempi la violenza è calata vertiginosamente e di ciò attribuisce il merito all’operato della polizia e dei soldati iracheni.
A riprova dei crescenti successi, gli scettici spesso dicono che mentre le operazioni militari procedono bene, non c’è alcun segno di quella svolta che dovrebbe ricomporre le fratture all’interno del corpo politico iracheno. Ma i recenti sviluppi suggeriscono il contrario. Giusto qualche giorno fa, Ammar al-Hakim, figlio e probabile successore del leader politico sciita più importante del paese, Abdul Aziz al-Hakim, si è recato nella capitale della provincia di Anbar, Ramadi, per incontrare gli sceicchi sunniti. Il suo gesto e le parole pronunciate sono state incredibili. “L’Iraq non appartiene solo ai sunniti o agli sciiti; né agli arabi, ai curdi o ai turcomanni,” ha detto. “Oggi, dobbiamo alzarci in piedi e dichiarare che l’Iraq è di tutti gli iracheni”.
Il richiamo di Hakim all’unità nazionale rimanda al pellegrinaggio che il vicepresidente iracheno, Tariq al-Hashemi, sunnita, ha svolto lo scorso mese a Najaf, l’epicentro dello sciismo iracheno. Lì ha visitato il grande ayatollah Ali al-Sistani, il massimo esponente religioso sciita. L’incontro è servito a supportare simbolicamente al-Sistani come la più autorevole figura religiosa irachena. Hashemi, inoltre, lavora da tempo a stretto contatto con Hakim e i suoi collaboratori, così con i curdi. E tali sforzi per giungere alla rappacificazione procedono rapidamente anche altrove. Il canonico anglicano, Andrew White, ha organizzato vari incontri tra i leader cristiani, sciiti e sunniti iracheni, i quali insieme hanno invocato la riconciliazione nazionale.
Il popolo iracheno sembra dunque essersi rivoltato contro i terroristi, anche contro quelli in combutta con i Signori del Terrore di Teheran. Le parole del colonnello Sanders sono inequivocabili: “Lì giù a Bassora, una terribile ondata di violenza si è scatenata contro di noi e l’Iran ne è stato l’artefice. Ma ciò che poi ha convinto le diverse milizie a unirsi è stato il forte senso di appartenenza nazionale che li ha indotti a respingere le interferenze iraniane”.
Come si può spiegare un tale cambiamento nel corso degli eventi? Mentre i nostri vertici militari hanno fatto molta attenzione ad attribuire la gran parte dei meriti agli eccessi dei terroristi e al coraggio della popolazione locale, la spiegazione più logica viene dal vecchio David Galula, il colonnello francese che combatté in Algeria e che in seguito, negli anni sessanta, ha scritto Counterinsurgency Warfare: Theory and Practice. Gaula sostiene che le insurrezioni siano guerre rivoluzionarie il cui esito è determinato dal controllo della popolazione e dal suo supporto. Il modo migliore per affrontare simili guerre è immaginare il gioco di ruolo chiamato “Go”. All’inizio i due giocatori hanno in dotazione una quantità limitata di risorse, tutti hanno il supporto di una minoranza del territorio e della popolazione. Entrambi possiedono delle risorse nella sfera d’influenza del nemico. Il gioco termina quando un giocatore prende il controllo della maggioranza della popolazione e di conseguenza del territorio.
Chi riesce a guadagnare il sostegno della popolazione vince la guerra. Galula giunge alla conclusione che mentre l’ideologia rivoluzionaria è centrale per generare l’insurrezione, ha poco a che fare con il suo esito, che invece è determinato dalla politica; come nelle elezioni, è il popolo a scegliere il vincitore.
Nelle fasi iniziali del conflitto, gli iracheni sono rimasti il più possibile neutrali nel mero tentativo di sopravvivere. Ma nel momento dell’escalation sono stati costretti a fare una scelta, a scommettere sul vincitore, e la loro scommessa automaticamente è divenuta la classica profezia che si autoavvera. La popolazione ha la carta vincente sul campo da gioco: l’informazione. Non appena gli iracheni si sono accorti che stavamo per vincere, infatti, hanno cominciato a darci informazioni sui terroristi: chi erano, dov’erano, quali erano i loro piani, dove nascondevano le armi e così via.
E’ fin troppo facile dire che ogni iracheno intelligente preferirebbe noi ai terroristi: noi non vogliamo restare a lungo, i terroristi promettono di restare per sempre e di rendere l’Iraq parte di un califfato oppressivo. Noi ce ne andremo in pochi anni e metteremo l’Iraq in mano agli iracheni, mentre i terroristi – molti dei quali sono burattini manovrati da potenze straniere – hanno intenzione di consegnare il paese ad altri. Noi promettiamo la libertà, mentre i jihadisti impongono il loro fascismo clericale e massacrano i loro fratelli arabi e musulmani.
Tuttavia, l’inclinazione nei nostri confronti non basta a spiegare la drastica svolta che si è verificata. La natura dei terroristi era ben chiara anche un anno fa, quando le cose andavano male. Come osserva acutamente Galula, “la parte che assicura una maggiore protezione, la parte che si dimostra più minacciosa, è la parte che sta per vincere, questi sono i criteri che governano gli orientamenti della popolazione. Ancor meglio, certo, se la popolarità e l’efficacia si combinano”.
La svolta c’è stata perché abbiamo iniziato a sconfiggere i terroristi, ed è coincisa più o meno con l’avvio del surge. C’è la tendenza a considerare il surge al pari di un semplice aumento delle truppe, ma l’elemento decisivo è stato il cambio di dottrina. Invece di tenere la maggior parte dei nostri soldati nelle sperdute e super fortificate basi militari americane, lontani dall’epicentro della battaglia, abbiamo cominciato a schierarli sul campo. Invece di reagire agli attacchi dei terroristi, gli abbiamo dato la caccia. Abbiamo smesso la finzione di essere in Iraq per addestrare gli iracheni perché fossero loro a combattere la guerra. Invece, abbiamo affrontato il nemico aggressivamente. E’ stato a quel punto che gli iracheni hanno fatto la loro scommessa decisiva.
Herschel Smith, del blog Captain’s Journal, ci offre una chiara descrizione di quanto accaduto ad Anbar: “Non c’è motivo di combattere un nemico che non può essere battuto e che non ha intenzione di andarsene“. Eravamo il cavallo vincente, e gli iracheni lo hanno capito.
Non c’è dubbio che i generali Petraeus e Odierno siano a conoscenza di ciò. Dopo tutto, è loro strategia che ha prodotto questi buoni risultati. Il loro riserbo nel proclamare la vittoria su al-Qaeda e sugli altri terroristi in Iraq è dovuto all’incertezza della battaglia politica che si svolge sul fronte interno. Petraeus e Odierno, insieme ai nostri soldati, temono che la classe politica a Washington possa ancora “strappare la sconfitta dalle fauci della vittoria”. Sanno che Iran e Siria sono ancora libere di colpirci lungo le frontiere, e il generale Petraeus, lo scorso mese, ha avvertito il Congresso che non sarà possibile vincere in Iraq se la nostra missione rimarrà circoscritta entro i confini del paese.
Non passa giorno senza che uno dei nostri comandanti urli ai quattro venti che gli iraniani operano in tutto l’Iraq, e che potenzialmente tutti i terroristi suicidi sono stranieri infiltrati dalla Siria. Abbiamo gravemente danneggiato le loro forze sul campo di battaglia, ma queste possono%0D sempre incrementare gli attacchi, e ancora non abbiamo una strategia diretta contro i Signori del Terrore a Damasco e Teheran. E questo è un problema che non può essere risolto solo da un’efficace strategia controinsurrezionale, per quanto eseguita con successo.
Michael A. Ledeen è Freedom Scholar all’American Enterprise Institute di Washington DC
© Wall Street Journal