Perché in Italia i tea party non hanno gioco facile
03 Dicembre 2010
In un paese dove una classe dirigente e una coscienza liberale latitano, la fresca ventata di idee sospinta dai Tea parties di casa nostra è benvenuta. Ma il successo politico di un movimento che muove dal basso e che si fonda su uno slogan accattivante ma semplice – “Meno tasse, più libertà!” – dipende dal riconoscimento di talune specificità della realtà italiana, soprattutto rispetto alle ben diverse circostanze economiche e sociali in cui il movimento dei Tea parties opera in America.
Queste circostanze sono al centro di un importante libro, dal titolo significativo di The Battle (una battaglia evidentemente culturale), scritto da Arthur Brooks, un giovane accademico oggi alla guida della principale fabbrica di idee alle spalle del mondo conservatore negli Stati Uniti, l’American Enterprise Institute. Prendendo a man bassa numeri e dati dai tanti sondaggi di opinione disponibili oltre oceano, Brooks descrive un’America spaccata in due grandi coalizioni, di dimensioni diverse. La coalizione del 30%, oggi al potere, guidata dai democratici e raccolta attorno alla figura del Presidente Obama e la coalizione del 70%, oggi all’opposizione, spesso polverizzata in tanti piccoli rivoli, ancora priva di un leader in grado di sintetizzarne gli umori, ma identificata da un insieme di valori condivisi quali la libertà individuale, l’imprenditorialità, l’eguaglianza delle opportunità (invece che dei risultati) e, soprattutto, l’autonomia personale.
Sebbene Brooks non lo dica esplicitamente, è proprio la percezione di essere autonomi che lega insieme, dal punto di vista valoriale, questa altrimenti eterogenea coalizione del 70% e che ne costituisce l’ossatura politica. L’autonomia è qui una forma di libertà, una convinzione intimamente maturata nel cuore di ciascuna persona: che le circostanze economiche e personali in cui ciascuno si trova nella vita dipendano da noi stessi, dalla nostra operosità, dalla determinazione e dalla voglia che mettiamo nel guidare i nostri passi lungo i binari tracciati dai nostri progetti.
Noi non abbiamo a disposizione sondaggi che ci permettano di stabilire, come fa Brooks, la reale dimensione della coalizione del 70% a casa nostra. Ma è noto tra gli economisti che da questa parte dell’Atlantico il livello di autonomia personale è molto più basso che in America. In altre parole, meno persone in Europa credono che il successo nella vita dipenda soprattutto da se stessi e molte di più sono certe di non essere libere di scegliere il proprio destino e convinte che chi raggiunge un traguardo ce la faccia perché aiutato da un sistema di interessi, quando non di clientele, parentopoli o tangentopoli, che rende intrinsecamente iniqua la gara della vita. In entrambi i casi, la libertà come autonomia è politicamente rilevante.
In tutti quei paesi come gli Stati Uniti dove le persone sono convinte che impegno e successo siano intimamente legati, lo è perché determina, coerentemente con un senso diffuso di giustizia, una bassa domanda per l’intervento dello Stato. Poiché il successo dipende dal proprio impegno e non dal punto di partenza, la società è considerata dai suoi componenti come un corpo che garantisce l’equità delle opportunità. Livellare le differenze in termini di risultati con un sistema di tasse e trasferimenti è un premio iniquo ai pigri e agli incapaci e a chi, in generale, non ci mette tutto se stesso per migliorare il proprio orizzonte. Questa convinzione accomuna chi ha successo – e in quanto tale è contributore al sistema dei trasferimenti – e chi, invece, è nella ben più comoda posizione di mero beneficiario dei trasferimenti.
Da noi, al contrario, l’intervento dello Stato è visto con molto più favore perché percepiamo la nostra società come un sistema iniquo e consideriamo tasse e trasferimenti strumenti utili per compensare chi non ce la fa per gli ostacoli che alla sua realizzazione economica e personale ha frapposto un sistema di interessi se non, peggio, di clientele.
Il contributo dei Tea Parties al successo del Partito Repubblicano nelle recenti elezioni di mid term si spiega anche alla luce del livello di autonomia. Lo slogan Taxed Enough Already è iscritto nel DNA dell’americano non solo per ragioni storiche, come spesso si sostiene, ma perché esprime l’alto grado di autonomia percepito dalla coalizione maggioritaria del paese, quella appunto del 70%, politicamente compatibile con riduzioni del livello dell’imposizione fiscale in quanto consistenti con una visione di equità delle opportunità.
Non così in Italia dove la stessa visione di eguaglianza delle opportunità porta, a causa del basso livello di autonomia, a desiderare un sistema di protezione dei più deboli per compensarli delle distorsioni introdotte dalle reti clientelari nel raggiungimento del successo e della piena realizzazione personale.
L’equazione “Meno tasse, più libertà!”, giustamente fatta propria e spinta dai Tea Parties di casa nostra, seppure culturalmente condivisibile, rischia di essere politicamente ingenua se non ci si rende conto della diversità messa in luce dalla nostra analisi rispetto alla realtà americana. La preferenza per una diminuzione dell’intervento dello Stato è, in Italia, più sfumata in quanto disallineata con il sentimento prevalente di giustizia. L’affermazione politica delle idee liberali passa quindi per una strada più tortuosa di quella americana in cui i primi passi sono l’eliminazione delle tante rendite di posizione, la costruzione di una società in cui prevalga il merito e l’affermazione del valore della concorrenza. Un progetto ben più ampio e uno sforzo ben più intenso di una riforma fiscale cui i Tea parties speriamo vorranno e sapranno contribuire.