Perché Jessie Jackson odia Obama?

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Perché Jessie Jackson odia Obama?

26 Luglio 2008

Poche settimane fa, il Reverendo Jessie Jackson si è reso davvero ridicolo. Ecco l’immagine: un’encomiabile icona della politica americana minacciava di castrazione Barack Obama. Un triste spettacolo. 

Ho spesso criticato il Rev. Jackson ma, in cuor mio, lo ho anche ammirato. Egli è infatti l’incarnazione vivente tardo novecentesca, di un radicato archetipo americano: il  “self-invented man” che viene dal nulla e che, con la sola tenace forza della propria personalità, si impone nella coscienza popolare americana. Benché egli non abbia mai raggiunto la grandezza cui ha sempre aspirato, Jackson ha onorato quella vecchia tradizione americana fatta di un opportunismo audace e smaliziato.

Ora però, benché non ancora decrepito per l’età, sembra a disagio nella nuova era Obama, e la ragione è chiara: Jessie Jackson, di fatto, è stato messo di fronte al proprio tramonto. Quella forza che lo teneva a galla, oggi sembra averlo abbandonato. 

Jessie Jackson è sempre stato un uomo provocatorio. Ha messo le istituzioni americane (specialmente le ricche corporations) dinanzi alla vergogna del proprio passato razzista, domandando per questo continua riparazione. Lui sì che avrebbe potuto raccogliere il mantello politico di Martin Luther King (come noto si spalmò in viso il sangue di questo grande uomo poco dopo il suo assassinio), battendosi per l’eguaglianza dei neri grazie ad un’indomita fede riposta proprio nell’immaginazione e nella forza della sua gente. Purtroppo sia Jackson che tutto l’establishment politico del movimento dei diritti civili americano, hanno ricercato l’eguaglianza per le loro genti, manipolando e sfruttando il senso di colpa “bianco”.

Credevano che la leva morale nei confronti dell’America bianca potesse bastare. Non avevano torto, se si considera quanto giunsero inaspettate le improvvise vittorie che il movimento dei diritti civili raccolse negli anni Sessanta. E’ per questo che il Rev. Jackson e la sua generazione hanno fatto del tenere i  bianchi “on the hook” (al gancio) l’imperativo più sacro dell’identità nera americana post-sessantottina. 

Essi inaugurarono quella pratica dell’estorsione dei diritti civili, con cui, in soldoni, volevano dire alle istituzioni americane: "La tua Vergogna si trasformerà nel nostro vantaggio”. Per gusto di polemizzare metto sul piatto anche questo: perché non sostenere che il cosiddetto “sviluppo nero” avrebbe potuto rappresentare una via più sana all’eguaglianza per la popolazione di colore? Certo è che questo tipo di ragionamento avrebbe “sganciato i bianchi dall’amo” e perciò sarebbe stato considerato un’imperdonabile eresia agli occhi del movimento. Per dovere di chiarezza, vale la pena ricordare che, per quella generazione, un qualsiasi “Zio Tom” non era un nero che tradiva la sua razza bensì era un nero che tradiva l’abbondanza di leve morali che il suo gruppo poteva esercitare sui “bianchi”.

Ora invece è arrivato Obama, diventato il primo vero candidato presidenziale nero proprio grazie alla sua volontà di mettere fine all’uso strumentale della leva morale sui “bianchi”. La grande ingegnosità politica di Obama è molto semplice: barattare la leva morale con la gratitudine. Smetterla con la leva morale sui “bianchi”, rifiutarsi di gettare loro addosso la vergogna di un passato razzista, affinché la loro gratitudine si trasformi in una nuova forma di “black power”. Per dirla in una formula: i bianchi ti ameranno per la fiducia che tu riponi in loro stessi. 

Per questo non è difficile capire perché il Rev. Jackson abbia vissuto l’ascesa di Obama con un dolore non dissimile a quello di un ago conficcato nel cuore. Dal suo punto di vista Barack Obama è “l’asso nella manica” dei bianchi: una leva morale che i bianchi possono usare proprio contro la leva morale che i leader neri hanno impropriamente usato contro di loro per decenni. Questa è l’annientamento di Jessie Jackson, una sorta di ’Anti-Jackson’. 

Ora si capisce perchè Obama sia così bravo ad accaparrarsi la gratitudine dei bianchi; così come era bravissimo il Rev. Jackson quando con abilità infiammava e sfruttava il senso di colpa dei bianchi. Credo che Jackson intraveda il riflesso del proprio oblio politico nei lineamenti facciali di Barack Obama. Così si capisce perché, alla minaccia di castrazione ”in video”, abbia fatto seguito una sottile espressione di dolore, come se quell’ago piantato in cuore si fosse conficcato ancor di più. 

Ma Obama ha fatto di più: recandosi al NAACP ( National Association for the Advancement of Colored People) il candidato democratico ha portato un messaggio di “responsabilità nera”, dopo aver invitato dal palco i padri neri a prendersi cura dei figli che mettono al mondo. “Parole arroganti contro la gente nera” ha borbottato Jessie Jackson. 

Generalmente “responsabilità nera” è un’espressione proibita per un leader di colore; non perché i neri rifiutino il concetto di responsabilità, ma per la semplice ragione per cui, anche la più blanda menzione di “responsabilità nera” indebolisce la leva morale sui bianchi. Quando Obama usa questo nuovo linguaggio, i bianchi sono riconoscenti mentre i leader neri ribolliscono di rabbia. 

La verità è che la scelta di Obama di rinunciare alla leva colpevolizzatrice contro i bianchi, gli offre una chance per diventare presidente. Ha suscitato la devozione di milioni di bianchi in maniere tali che i “colpevolisti” neri non avrebbero mai potuto  eguagliare e mai potranno. E i neri che non si sentono più rappresentati dalla sclerotica leadership d’oggi, se ne accorgono e lo vedono nitidamente.

Sino alla comparsa di Obama, un qualsiasi nero, con un messaggio di “responsabilità”, sarebbe passato per un “conservatore nero” (black conservative) e per questo prontamente emarginato. Basti ricordare che, dopo il discorso di Obama alla NAACP, i neri in platea si sono ammassati nella hall del suo hotel, ringraziandolo per avergli “ricordato” il concetto responsabilità.

Thomas Sowell, tra gli altri, ha articolato attentamente le doti benefiche che il principio di responsabilità individuale avrebbe potuto esercitare in funzione d’antidoto nella lotta alla povertà “nera”. Pensatori neri, a partire da Frederick Douglas e Booker T. Washington, hanno fatto lo stesso. Ma perché allora, ad un certo punto, i neri sono oggi disposti a far propria, in modo aperto, questa ovvia verità, pur consapevoli  che un’interiorizzazione del genere indebolirà la loro leva morale su bianchi?  

Penso che la risposta risieda nella capacità di Obama di offrire alla comunità nera qualcosa di più profondo che una misera leva morale. Se non altro simbolicamente, Obama può mettere fine all’inferiorità dei neri. E non c’è da stupirsi se ciò costituisca un tormento spirituale rilevante per loro, perché tutto a un tratto gli viene svelata la menzogna originale. 

Pensate a Barack Obama nello Studio Ovale della Casa Bianca, un uomo nero sul ponte di comando di una nazione a maggioranza bianca: beh, offrirebbe ai neri un conforto ben più rilevante che non una meschina elemosina che l’insignificante leva morale sui bianchi abbia mai fruttato  loro. 

I bianchi americani, a loro volta tormentati dalla stigmatizzazione della propria inferiorità morale, in quanto razzisti, troverebbero in una presidenza Obama una consistente leva morale contro questa presunzione. Va riconosciuto che, sul piano del simbolismo storico-culturale, una presidenza Obama potrebbe incoraggiare un lieve avanzamento culturale, nella speranza che si tratti almeno di un presidente competente (un presidente nero incompetente ingenererebbe, in tutta probabilità, una regressione).
 

Sarebbe buona cosa se l’avvento di Obama alla presidenza USA favorisse una reale apertura dei neri nei confronti del potere della “responsabilità”. Aiuterebbe tutti, se solo i bianchi la smettessero di essere afflitti dalla sindrome della “correttezza politica” su qualsiasi riflessione pubblica condotta su tematiche “nere”, tale da proteggerne l’innocenza razziale a tutto danno dei grandi principi che hanno fatto grande l’America. 

Noi Americani siamo impazienti che questo cambiamento si verifichi.

Non c’è dubbio che questo sia il vero significato del termine “change” (cambiamento) promosso da Barack Obama. Egli ci promette di aggiornare un esausto patto culturale tra le comunità.

Ma qui emerge la contraddizione essenziale che affligge Obama: la sua campagna elettorale si muove molto di più sul terreno culturale che su quello politico: si pone, molto di più, come candidato di rottura culturale che come candidato alla carica di presidente. Se si vuole essere la proiezione delle aspirazioni culturali, sia dei neri che dei bianchi, è necessario essere politicamente invisibili. Il mondo vero della politica, nella propria mondanità, soffoca le proiezioni culturali. E’ per questo che l’invisibilità politica di Obama (un fascino che deriva dalla sua assoluta mancanza di convinzioni politiche) può andare a pennello con il suo appeal culturale, ma lo rende anche, agli occhi di molti, un “enigma”. 

Ha già cambiato direzione su: finanziamento pubblico ai partiti, intercettazioni, controllo degli armamenti ad uso privato, rapporto tra religione e politica, e soprattutto sui termini del ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Gli innamorati del suo potenziale culturale potrebbero obiettare che tali cambi di rotta siano in vero solo l’espressione di un’acuta riflessione, se non addirittura, di una certa apertura mentale. Ma com’è possibile che un uomo che dimostra di riporre così tanta fiducia nel proprio richiamo culturale, non dimostri il ben che minimo attaccamento reale alla lotta per i principi che in qualche modo lo riguardino? Le sue tergiversazioni tradiscono un’immaturità quasi esistenziale sui principi, come se la fondamentale idea di Verità, fosse un rimasuglio decotto di un passato dal sapore acre.

John McCain è semplicemente un uomo dal grande carattere, poverino. E’ completamente privo di qualsiasi appeal culturale. Messo dinanzi ad un messaggio accattivante di cambiamento culturale, non può che apparire l’incarnazione di una retroguardia stantia.  Peggio ancora, il trucchetto di Obama è quello di rimuovere continuamente la politica dal tavolo, avvicinandosi politicamente alle posizioni del suo avversario, cosicché solo la “cultura”  rimanga a separarli. Senza contare che, legato com’è ai principi (sic!), può assumere posizioni diverse, passando dall’ultrasinistra al centro-destra e, leggero come una piuma, rosicchiare buona parte del territorio di McCain.   

Barack Obama ha già conquistato il suo mandato culturale alla presidenza americana. Politicamente egli combatte soltanto sé stesso. Il suo sfidante non si chiama McCain, bensì si chiama definizione del proprio patriottismo, della propria affidabilità e della propria serietà. Non gli resta che tentare di apparire un piccolo Colin Powell. Non ci sono dubbi che il suo attuale viaggio in Medio Oriente e in Europa gli attribuisca qualcosa della statura politica dell’ex segretario di Stato repubblicano.

Il suo obbiettivo è chiaro: Obama vuole che anche l’America rurale si senta a proprio agio affinché il mantello che gli ha cucito stia di spalle al candidato democratico. 

 

© Wall Street Journal 

Traduzione di Edoardo Ferrazzani

 

Shelby Steele è ricercatore alla Hoover Institution dell’Università di Stanford ed è autore del volume "A Bound Man: Why We Are Excited About Obama and Why He Can’t Win" (Free Press, 2007).