Perché la discriminazione dei meno dotati
05 Dicembre 2012
Fabio, come tutti i ragazzi con Sindrome di Down nati dopo gli anni sessanta, può ritenersi un ragazzo fortunato. Fino ad allora nell’ambito delle sintomatologie mentali i soggetti down erano poco graditi per gli evidenti tratti somatici che li relegavano a una sottospecie umana e venivano ritenuti privi di raziocinio e di autocoscienza.
Solo di recente si è capito che dietro a quel viso si nasconde una figura di stupefacente intensità emotiva meritevole di un riconoscimento maggiore e una seria presa in carico dalla medicina ufficiale. Non voglio dire che questo riconoscimento sia avvenuto in modo semplice. Basti pensare che negli scaffali degli specialisti del settore continua a stare in bella mostra l’edizione dell’Enciclopedia Medica Labor del 1950 dove tra l’altro si legge che “…tra le varie forme di deficienza mentale, i Down sono i meno capaci di apprendere”, e quindi “è conveniente l’internamento in speciali Istituti”!
La discriminazione nei confronti dei meno dotati risale ai tempi dell’antica Grecia, quando lo scopo dell’esistenza umana si condensava nell’invito epicureo del ‘godi il presente senza curarti del domani’. Buona parte della cultura precristiana era in effetti improntata alla ricerca della felicità nel godere dell’attimo fuggente. In quell’epoca, travagliata dal punto di vista culturale, Platone riteneva che lo scopo principale dell’uomo fosse di trovare il proprio sé attraverso “lo sciogliersi dell’anima nella luce di Dio” e vagheggiava una “Città Ideale”, proponendo giustamente che la “polis” fosse guidata da uomini di qualità morali irreprensibili e di intelligenza superiore. La dottrina platonica fu tuttavia mistificata in legge del più forte. Cominciando da Aristotele allorché nel libro VII di “Politica”, giustificando i pregiudizi schiavistici e misogini del suo tempo, auspicava che “vi dovrebbe essere una legge che proibisca alle famiglie di allevare figli malformati”.
Sappiamo che questa etica selettiva prosperò a lungo e si radicò con maggiore o minore violenza nei cicli storici successivi, sfiorando l’apice di ferocissime persecuzioni dei meno dotati, specialmente dei meno produttivi, o comunque di chi si comportasse in un modo ritenuto deviante e in contraddizione con la folle idea di una ipotetica razza pura. Del resto, la distorsione di un principio giusto, in ogni epoca è qualcosa di apparentemente inevitabile e per un breve periodo ammorbò finanche il cattolicesimo. Sebbene nel Medio Evo la carità cristiana provvedesse ad assistere gli ‘inguaribili’ con la costruzione di ospizi, ricoveri e ospedali, questi principi furono ben presto assorbiti nel Diritto Romano e per un breve periodo alle levatrici furono date precise istruzioni per eliminare i neonati ‘imperfetti’.
Non troppo diverso da quello di Aristotele è il pensiero di colui che è considerato uno dei massimi epigoni della filosofia ‘modernista’, Friedrich Nietzsche. Alla spasmodica ricerca di una nuova religione fondata sulla ragione del più forte e del più potente, insomma della “razza pura”, pur di colpire il potere della Chiesa, inopinatamente prende di mira i “casi malriusciti” che, a suo avviso, essendo da essa stati protetti e curati, avrebbe reso, intenzionalmente, l’essere umano un “aborto sublime”.
In seguito alla scoperta della struttura del DNA in alcuni settori della ricerca è iniziata la manipolazione del genoma umano che, pur essendo per certi versi un fatto positivo, rischia di riportarci indietro di millenni, verso una concezione oscurantista della vita, perché se non utilizzata con raziocinio può provocare una selezione indiscriminata che non può essere razionalmente giustificata, quand’anche fosse dettata dalla disperazione o dall’impossibilità materiale di crescere un figlio disabile. Questa degli aborti il premio Nobel per l’economia Daniel Kahnemann la definisce una delle piaghe più dolorose del nostro tempo perché è convinto che la libertà, cui la sottocultura ‘modernista’ anela (come dice Renè Girard), scevra da ogni tipo di responsabilità, deriva dal presupposto secondo cui “chi ha figli è meno felice di chi non ne ha”.