Perché la politica estera occidentale in Medio Oriente è sbagliata

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Perché la politica estera occidentale in Medio Oriente è sbagliata

27 Agosto 2007

di Barry Rubin

Coinvolgere, moderare e dividere-ecco il mantra sulla politica mediorientale delle teste dure in molti ministeri degli Esteri, redazioni di giornali, università, ed altri posti dove ha sede l’industria internazionale in rapida espansione delle idee sbagliate.

Però nulla sembrerebbe più evidente di queste proposizioni. Che ci dovrebbe essere di sbagliato nel coinvolgere poteri radicali, persuadendoli a cambiare le loro opinioni, e rompendo le loro alleanze? Sono contento che lo abbiate chiesto. Ecco come queste idee giuste ed apparentemente ovvie possono in realtà essere non solo dannose ma addirittura disastrose.

1.Coinvolgimento. Non si dovrebbe parlare con i propri nemici? In che altro modo si può farli cambiare? Bé, dipende da chi, come e quando. Ecco quali potrebbero essere i problemi insiti in una innocente chiacchierata amichevole con l’Iran, la Siria o Hamas, per esempio.

Per prima cosa, che dire della storia? Se il passato ci dice che questo tipo di sforzi hanno fallito ciò indica che altri tentativi simili sarebbero mal consigliati e ci sarebbe invece bisogno di usare altri metodi. Ad esempio, il governo Usa ha inviato numerose delegazioni di alto livello diplomatico in Siria tra il 2001 e il 2005 solo per rendersi conto che è stato ripetutamente preso in giro. Questa campagna diplomatica si è fermata solo quando il governo della Siria ha assassinato l’ex-Premier libanese (e il politico più popolare) Rafik Hariri.

Così come con l’Iran, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania hanno speso tre anni durante i quali si sono impegnati in un dialogo diplomatico riguardante il programma nucleare dell’Iran. Tre anni in cui Teheran ha mentito, non ha mantenuto le promesse e non ha onorato gli impegni presi, il tutto mentre lavorava alacremente in vista del conseguimento delle sue bombe atomiche. Per tutta risposta, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha solamente annunciato un nuovo piano di lavoro. Cavolo, questo sì che dovrebbe proprio spaventare gli iraniani! Naturalmente ci si prenderà gioco di tutto ciò fino a quando non si sarà concluso un nuovo patto e fino al giorno in cui l’Iran metterà le mani sulle testate nucleari. E Poi c’è la questione del momento in sui si inizia a coinvolgere questi stati canaglia.

Per fare in modo di entrare in un rapporto di coinvolgimento sostenibile, gli Occidentali si sentono obbligati-e i loro interlocutori radicali pressano in tal senso-a provvedere prove delle loro buone intenzioni in forma di concessioni. Naturalmente, la sponda estremista non darà nulla in cambio visto che è costretta a giocare la parte della fazione ferita che concede alle democrazie un favore degnandosi di dialogare con loro. E mentre questo processo va avanti, la sponda Occidentale concede sempre di più, non ottenendo nulla in cambio. Alla fine non c’è niente che ricordi un patto o un cambiamento. La parte estremista non deve nemmeno sforzarsi di chiamarci “fessi”a noi Occidentali, ma se lo facesse sarebbe meno ipocrita.

Allo stesso modo, se il dialogo continua, il socio Occidentale si sente obbligato a non intraprendere azioni drastiche che potrebbero portare all’abbandono delle trattative da parte degli estremisti. Se, per esempio, Hamas continua a compiere atti di terrorismo, non si può tagliare i suoi fondi o inasprire le sanzioni perché questo li farebbe arrabbiare. Ovviamente, qualsiasi cosa si faccia, provate ad indovinare chi sarà incolpato della rottura delle trattative. Questa non è altro che la storia di molti coinvolgimenti diplomatici di questo tipo, per esempio il processo di pace Israelo-Palestinese di Oslo del 1990.

Per finire bisogna prendere in considerazione il modo in cui il lato estremista considera il processo di coinvolgimento politico come una vittoria, il segno che gli estremisti sono vincenti e che l’Occidente è impaurito ed inefficace. Questo, tra l’altro, è precisamente ciò che i leader della sponda estremista dicono in arabo o in persiano ai loro colleghi e al loro popolo. Allo stesso tempo, la credibilità del lato democratico precipita verso il basso e la deterrenza si schianta al suolo, producendo ancora più estremismo e aggressività.

2. Ma perché anche il tentativo di rendere più moderate le forze estremiste è destinato al fallimento? La risposta più ovvia e che queste forze non vogliono diventare moderate, d’altronde perché dovrebbero? Questo modello di pensiero mal congeniato è basato su di una visione dell’Iran, della Siria, di Hamas e Hezbollah che considera in generale gli estremisti islamici come militanti reclutanti, forzati a combattere dal malinteso (l’Occidente o Israele non sono poi così orribili e non intendono danneggiarli) o dalla mancanza di alternative.

Infatti, gli estremisti costruiscono il loro atteggiamento mentale basandolo su di una miscela di credenze-un’ideologia molto sentita basata a sua volta su di una invasiva visione del mondo-e ambizioni. È questa la loro via verso il potere, i soldi e la gloria; agire in maniera opposta è comportamento degno di un traditore schifoso. Questa gente non è, per usare un eufemismo, facilmente persuasibile, specialmente da parte di chi odia e vorrebbe distruggere.

Come se non bastasse, questi estremisti credono di stare vincendo, un’idea rinforzata da molte esperienze e spesso più che altro dall’ardente desiderio Occidentale di combatterli. Solo nel caso in cui credono di stare perdendo-dopo l’imposizione di dure sanzioni e altre misure-potrebbero considerare di rivedere le loro strategie e tattiche. E perfino la massiccia quantità di forze armate utilizzate in Iraq dimostra che questo scenario non è poi così probabile.

Alla fine, anche se qualcuno volesse diventare moderato, c’è sempre da considerare l’eventualità di essere assassinati da qualche collega. I moderati sunniti in Iraq non possono scendere a patti per il semplice motivo che è difficile occuparsi di politica quando si è morti.

3. Dividere. Esaminiamo la relazione Siria-Iran. L’Iran dalla Siria riceve:

-Un sacco di soldi

-Un partner con un punto di vista ideologico abbastanza simile

-Copertura islamica per un regime guidato da non-musulmani

-Un alleato con interessi paralleli in termini di anti-americanismo, che combatte Israele, supporta Hezbollah in Libano e Hamas tra i palestinesi.

-L’Iran paga il conto a questi gruppi e quindi la Siria si prende un passaggio gratis

-Teheran provvede ad una profondità strategica, proteggendo la Siria da qualsiasi attacco da parte Occidentale o israeliana.

È da pazzi credere che la Siria possa disertare questa organizzazione in cambio di una dipendenza dal poco credibile Occidente e abbandonare i suoi più validi assets, utilizzando una presunta minaccia di tipo imperial-sionista come una scusa per il fallimento del regime e come motivo della sua sopravvivenza. Argomentazioni parallele a queste potrebbero essere utilizzate, se mi si consente, per spiegare i motivi che l’Iran ha di allearsi con la Siria la quale, per esempio, dà una decisa spallata alle barriere arabo/persiane (la Siria è araba) e sunnite/sciite (la Siria è a maggioranza sunnita) che bloccano le ambizioni iraniane di diventare la potenza guida della regione mediorientale. Il coinvolgimento, la moderazione e la divisione sembrano sicuramente buone strategie. Ma in realtà sono strategie veramente pessime.

Barry Rubin è Direttore del Global Research in International Affairs Center (GLORIA), Editore del Middle East Review of International Affairs Journal (MERIA) e dei Turkish Studies.

Traduzione a cura di Andrea Holzer