Perché la previdenza complementare ancora non decolla
02 Luglio 2008
Un tormentone ormai attempato: la previdenza. In occasione dell’assemblea annuale dell’Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici, svoltasi ieri a Roma, il Presidente Fabio Cerchiai ha esposto nella sua relazione alcune considerazioni sulla stato della previdenza complementare in Italia, evidenziando, peraltro, la necessità di «dare maggiore flessibilità al sistema, riconoscendo un diritto di ripensamento per un certo lasso di tempo, dopo l’iniziale conferimento del TFR a una forma previdenziale», in quanto «questa possibilità contribuirebbe a ridurre la riluttanza dei lavoratori a devolvere il Tfr».
Riluttanza che trae origine dall’impossibilità del lavoratore di tornare sui propri passi: la destinazione degli accantonamenti del Trattamento di fine rapporto alla previdenza complementare, infatti, non è revocabile; viceversa, la scelta di conservare le somme destinate al Tfr presso il datore di lavoro può essere, in ogni caso, disdetta.
Spunti per una riflessione circa il requisito della reversibilità erano già emersi lo scorso 24 giugno, allorché, presentando la relazione annuale, il Presidente della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione, Luigi Scimia, aveva suggerito la necessità di rilanciare la previdenza complementare, poiché, nonostante i numeri indichino un certo margine di crescita, i risultati ottenuti si rivelano, de facto, ancora modesti. Infatti, in base ai dati rilevati dalla Covip, ad aprile 2008 il totale dei lavoratori iscritti si fermava a 4,7 milioni, di cui 700 mila sottoscrittori di piani individuali assicurativi (i vecchi Pip).
Tuttavia, se consideriamo che i soggetti aventi diritto sono 12,2 milioni (al netto dei lavoratori domestici), la platea degli aderenti sembra riempirsi a rilento. L’aumento degli iscritti ai fondi pensione nel 2007, inoltre, si attesta a 43,2% rispetto all’anno precedente (3.184.224 nel 2006 e 4.560.091 nel 2007), mentre nel primo quadrimestre del 2008 si è registrata una crescita del 2,8%, con l’ingresso di 130.000 nuovi soggetti, ma in realtà il dato indica una brusca frenata. Al fine di provvedere a questo mancato decollo o, comunque, per rilanciare la previdenza integrativa, Luigi Scimia ha proposto alcuni interventi mirati ad allargare la partecipazione dei lavoratori: facoltà di ripensamento e riduzione della tassazione sui rendimenti.
Dal canto suo, il ministro del Lavoro Sacconi, che ieri è intervenuto all’assemblea dell’Ania, è d’accordo con Cerchiai e Scimia circa la realizzazione di provvedimenti diretti a rendere reversibile il conferimento del Tfr («entro certi limiti, compatibili con le esigenze di stabilità»), in quanto potrebbe far divenire accattivante il secondo pilastro della previdenza. In tal modo la reversibilità «dovrebbe incoraggiare – ha evidenziato il ministro – quei lavoratori, il 75%, che finora hanno mantenuto il Tfr in impresa, a compiere una scelta in favore della previdenza complementare».
Sacconi, però, si dichiara avverso all’eventuale predisposizione di sgravi fiscali (oggi la tassazione sui rendimenti dei fondi è pari all’11%), poiché, sebbene consapevole che «i cambiamenti della componente privata della previdenza si attuerebbero di più e meglio con uso della leva fiscale», ritiene che non sia «il momento agevole per parlarne perché l’uso della leva fiscale ha un costo per la finanza pubblica».
Inoltre, il ministro del Lavoro ha affermato di voler aprire un confronto con le parti sociali circa la portabilità del contributo del datore di lavoro, «che produrrebbe una maggiore concorrenza, con una migliore gestione dei fondi stessi e la conseguente riduzione dei costi delle forme previdenziali». A tal proposito, l’art. 14 (comma 6) del d.lgs. 252/2005 stabilisce che, decorsi due anni dalla data di partecipazione ad una forma pensionistica complementare, il lavoratore può trasferire l’intera posizione individuale maturata ad altra forma pensionistica ma, per quanto concerne l’eventuale contributo a carico del datore di lavoro, tale diritto di trasferimento può essere esercitato «nei limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti o accordi collettivi, anche aziendali».
In pratica, il lavoratore ha a disposizione il contributo datoriale solo nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l’ipotesi di portabilità del predetto contributo, altrimenti corre il rischio di perderlo. Peraltro, è opportuno evidenziare la mancanza di armonia della suddetta norma con il principio e criterio direttivo della legge delegante (la c.d. riforma Maroni), che mira alla «eliminazione degli ostacoli che si frappongono alla libera adesione e circolazione dei lavoratori all’interno del sistema della previdenza complementare» (art. 1, comma 2, l. 243/2004). Un chiaro limite alla liberalizzazione delle scelte previdenziali dei cittadini.