Perché la strada del federalismo è ancora lunga e in salita
23 Giugno 2010
La storia del federalismo fiscale in Italia è ormai lunga e tortuosa. Il federalismo fiscale, targato Calderoli, è già legge infatti da più di un anno (esattamente il provvedimento è stato approvato il 05 maggio 2009). La prima versione di tale normativa prevedeva, peraltro, che alle Regioni, oltre all’intero gettito Irap (almeno fino alla sua sostituzione), andasse anche un’aliquota riservata dell’Irpef.
Per strada, poi, l’aliquota Irpef riservata si è persa nelle paludi degli emendamenti.
Al posto dell’aliquota riservata, le Regioni, per finanziare le loro funzioni essenziali, debbono dunque contare sull’Irap (finchè ci sarà) e sulle compartecipazioni. Possono inoltre utilizzare il gettito dell’addizionale Irpef e i fondi perequativi.
L’elemento principale della riforma restava (e resta) comunque la possibilità di parametrare il prelievo da parte degli enti locali al costo standard dei servizi fondamentali e non più invece alle erogazioni storiche, che tanti sprechi hanno fino ad oggi prodotto. Attualmente, infatti, i trasferimenti statali alle Regioni per finanziare le funzioni essenziali (vedi, in particolare, sanità, istruzione ed assistenza) avvengono sulla base della spesa storica e con criteri incrementali.
Tutto questo però oggi è ancora solo sulla carta. La legge stabilisce infatti un periodo di due anni per pubblicare i decreti (c’è tempo dunque fino al 05 maggio 2011) e un ulteriore periodo di transizione di 5 anni.
Con il federalismo fiscale, dunque, i trasferimenti statali saranno cancellati e al loro posto le Regioni potranno applicare tributi propri e godranno di compartecipazioni con cui appunto finanziare tali funzioni ed assicurare (tramite un cosiddetto patto di convergenza) i livelli essenziali delle prestazioni a costi standard, intesi come i costi efficienti a cui presta gli stessi servizi la Regione più “virtuosa”. Per tutte le altre, per compensare le differenze, interverrà poi il fondo perequativo (come già avviene, per esempio, in Germania e in Svizzera).
La perequazione sarà quindi verticale, nel senso che l’attribuzione di risorse alle Regioni “povere” passerà attraverso lo Stato (e sarà dunque a carico della fiscalità generale): una sorta quindi di camera di compensazione.
Gli effetti concreti della riforma, ieri come oggi, dipenderanno proprio da come e se si riuscirà a dare attuazione al passaggio dal principio del costo storico a quello del costo standard, considerato che questo è il solo modo di consentire ad un sistema federalista di allinearsi alle prestazioni delle Regioni e degli enti locali più efficienti e da come tale principio verrà poi coordinato con quello della perequazione verticale.
Sul fronte degli enti locali, invece, oltre che dei tributi propri individuati dalla legge statale, essi potranno avvalersi dell’imposizione immobiliare e della compartecipazione, sia all’Irpef che all’Iva, da quantificare in funzione del contributo dato dagli stessi enti locali in termini di contrasto all’evasione fiscale. Proprio l’alleanza contro l’evasione fiscale ha anticipato, di fatto, il federalismo fiscale.
Già con la manovra d’estate 2009 si era infatti previsto che, con cadenza semestrale, il Dipartimento delle Finanze comunicasse agli enti locali l’elenco delle iscrizioni a ruolo delle somme derivanti da accertamenti ai quali i municipi avessero contribuito. Agli stessi spetta infatti una compartecipazione sugli importi incassati.
Dal federalismo potrebbe dunque emergere una razionalizzazione della spesa pubblica e (nella migliore delle ipotesi) una riduzione degli sprechi. Si parla di circa 80 miliardi di euro all’anno, ma il calcolo è molto opinabile. Un esempio lo può far capire agevolmente: il Veneto spende per ciascun cittadino 7.193,00 Euro a persona, contro una media nazionale di 10.600,00 Euro a persona. Se dunque si prendesse come costo standard quello del Veneto, la spesa pubblica si ridurrebbe di circa 500 miliardi di Euro (miliardi, non milioni). Naturalmente basta cambiare parametro di riferimento e tutto cambia (potendosi prendere, per esempio, la media delle spese delle regioni “virtuose”).
Ma il pericolo da evitare è una moltiplicazione dei centri di potere. In tal caso, infatti, vi potrebbero essere invece, senza dubbio, non risparmi ma costi aggiuntivi. Restano comunque ancora molti ostacoli sulla realizzazione di un effettivo ed efficace federalismo fiscale.
Basti pensare, infatti, che, oltre al fatto che manca ancora il definitivo assetto degli stessi enti locali e la realizzazione del Senato delle Regioni, soprattutto non si conosce ancora con esattezza la situazione finanziaria degli enti locali (compresa quella dei derivati) e quindi il loro concreto fabbisogno. Con il federalismo fiscale, inoltre, resta il problema delle Province che, oggi, costano circa 17,5 miliardi di Euro l’anno e che domani, proprio con tale riforma, potrebbero costare anche di più.
Resta comunque il fatto che la legge impone l’invarianza della pressione fiscale: in sostanza al cittadino/contribuente il federalismo fiscale non dovrà costare niente.
Già dalla scorsa Finanziaria a chi non abbia presentato un credibile piano di rientro dal deficit (si pensi al debito sanitario di Regioni come Lazio, Campania, Calabria, Molise) viene imposto l’aumento delle addizionali Irpef (+0,15%) e Irap (+ 0,3%). In conclusione, oggi, più che al federalismo fiscale siamo alla responsabilizzazione fiscale. Ma è già un inizio.