Perché l’esercito israeliano è sotto accusa e cosa significa per noi

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Perché l’esercito israeliano è sotto accusa e cosa significa per noi

21 Marzo 2009

Secondo alcune testimonianze rilasciate da soldati israeliani nell’ambito di un corso di formazione dell’Esercito, riportate dal quotidiano di Tel Aviv Haaretz, nel corso di Piombo Fuso le forze di Tsahal si sarebbero rese colpevoli di atti che non fanno fatica a rientrare sotto la definizione di crimini di guerra. Il novero delle “confessioni” dei veterani di Gaza include racconti di fuoco a raffica nelle case, donne e bambini freddati da cecchini per banali difetti di comunicazione fra reparti, disprezzo per i palestinesi in quanto tali, atti di vandalismo e scherno nelle loro abitazioni.

La linea di difesa utilizzata da Israele per difendersi dalle periodiche accuse circa l’eticità del comportamento di Tsahal si impernia solitamente su tre punti.

In primo luogo, l’attendibilità delle fonti. Racconti di episodi come quelli di cui si parla su Haaretz, provengono nella stragrande maggioranza dei casi da “testimoni oculari” appartenenti a movimenti politici o organizzazioni palestinesi, ONG “umanitarie” super-politicizzate e testate giornalistiche con una fiorente tradizione di Bias anti-israeliano. Non si contano i casi di presunti episodi “criminali” rivelatisi, a seguito di indagini anche da parte di organismi indipendenti ed internazionali, esagerazioni e talvolta semplici invenzioni.

Secondo, le peculiarità operative di un conflitto asimmetrico unico e talvolta indecifrabile, sul piano tattico, anche agli esperti della materia oltreché, ovviamente, alle opinioni pubbliche. Nessun esercito convenzionale è costruito per combattere porta a porta in popolosi centri abitati contro uomini in abiti civili che si fanno scudo di civili. Ad esempio, la scelta di entrare a Gaza con forze di terra piuttosto che affidare l’operazione ad una maggiore potenza di fuoco dell’aeronautica, argomenta Israele, è di per sé una scelta “morale”, mossa dal desiderio di ridurre l’entità dei danni collaterali pur al prezzo di un maggiore rischio per le proprie truppe.

In terzo luogo, la guerra è la guerra. Per quanto educati ed addestrati, coloro che la fanno sono soldati e quindi uomini, anzi ragazzi, a volte stupidi, arrabbiati, nervosi, cattivi, sempre impauriti. La freddezza e i nervi di un uomo consapevole di poter essere ucciso in ogni momento non sono li stessi di quello che lo guarda in televisione e, in definitiva, una certa incidenza di episodi di comportamento immorale è fisiologica e inevitabile.  

Chi conosce la guerra in generale e questa guerra in particolare sa che si tratta di tre argomentazioni molto forti, che quasi sempre ingiustamente soccombono alla semplice, immediata, tragica forza mediatica dei morti e dei feriti. E tuttavia, a fronte della “confessione dei soldati israeliani, nessuno di questi tre punti sembra veramente reggere.

Le accuse provengono, in questo caso, da fonti che non hanno certo interesse a screditare Israele agli occhi del mondo, e anzi si battono in prima linea per la sua difesa. Provengono, inoltre, da uomini consapevoli, per averlo personalmente vissuto, del “dilemma operativo” e del fatto che la gente non lo capisce. Infine, dalle testimonianze dei soldati, il calo nell’etica del comportamento di Tsahal, sembra emergere come il risultato di uno strutturale calo di attenzione degli ufficiali verso il tema, piuttosto che di un aumento di episodi contingenti di natura “emotiva”.

Tolte di mezzo le argomentazioni generali e tradizionali, è giusto fare due osservazioni:

La prima è che nessuna delle testimonianze dei militari riguarda episodi accaduti a loro stessi in prima persona, ma solo comportamenti tenuti o menzionati da altri commilitoni.

La seconda è che Dani Zamir, capo del corso nell’ambito del quale sono state fatte le “confessioni”, è un militare che non ha mai tenute nascoste le sue opinioni politiche.

Allora un paracadutista della riserva, Zamir apparve per la prima volta agli onori della cronaca nel 1990, quando Haaretz pubblicò la notizia del suo arresto e della sua condanna a 28 giorni di prigione militare, seguiti al rifiuto di fare la guardia a una cerimonia di “right-wingers” che conducevano un rotolo della bibbia sulla tomba di Giuseppe, a Nablus. Nel 2004, Zamir ha scritto una parte del libro “Refusnik, Israel’s Soldier of Conscience”, che si è guadagnato le lodi nientemeno che di Noam Chomsky. Nel libro, la breve biografia di Zamir lo ritrae come “un ufficiale della riserva del Kibbutz Ayelet Hashahar, condannato a 28 giorni per essersi rifiutato di servire a Nablus”.

Con tono certo non analitico, e anzi vagamente epico, nella sua parte di libro Zamir scrive: “con stupida risolutezza e la superbia dell’onniscienza, predicatori primitivi nazionalisti senza redini ci stanno portando verso una calamità, e Pompei è occupata ad organizzare banchetti e divertimenti mentre si avvicina il disastro”.

Sia chiaro, il fatto che le testimonianze agli alunni di Zamir ben si concilino con le sue posizioni di vecchio refusnik non ne riduce la gravità né le invalida in alcun modo.

Haaretz è un serio giornale di sinistra, con un forte senso della libertà di stampa ma anche della patria, qualità comuni anche ad Amos Harel, il competente analista di cose militari che ha deciso di dare risalto all’episodio. Questo significa che la storia avrà un pubblico ampio, e che i racconti dei militari descrivono probabilmente eventi veri. A fronte di tutto quanto detto finora, e specialmente in un momento in cui uno dei fronti di Israele è quello dell’opinione pubblica internazionale, è difficile capire che interesse potrebbe avere un soldato a gettare gratuitamente fango sul suo Esercito e sul suo Paese.

Se, dunque, gli standard etici di Tsahal si sono realmente abbassati, è grave che la questione non sia emersa dalle indagini ufficiali condotte dall’Esercito stesso. Si tratta forse della conseguenza di una crescente disillusione, che spesso matura in rabbia, che gli Israeliani sembrano nutrire nei confronti della speranza della pace, trovando il suo sbocco politico nel risultato delle recenti elezioni.

Ma non si può fare a meno di notare che, come accade nelle vere democrazie, e nonostante il danno all’immagine del Paese, il campanello d’allarme che doveva suonare è suonato. Trovando il suo corso attraverso l‘integrità della coscienza di alcuni soldati, l’ideologia di quella di un Refusnik, la cronaca di un giornalista che lo ha ascoltato e il coraggio necessario di un direttore che lo ha pubblicato. Portando l’ufficio del Capo di Stato Maggiore a richiedere il transcript delle dichiarazioni dei soldati, ed avviare le relative indagini.

Queste indagini ci saranno veramente, perché la moralità del comportamento dell’esercito è per Israele, un asset strategico, indipendentemente dalle opinioni pubbliche internazionali. La sua autopercezione morale è l’elemento fondamentale che, pur a fronte delle divisioni politiche, rende la sua popolazione in grado di combattere. Come qualunque democrazia, Israele sopravvive anche grazie alle aspettative che nutre verso se stessa e i suoi standard etici. Le stesse aspettative che nutriamo anche noi nei suoi confronti, e che provocano rabbia e indignazione nei nostri comodi salotti italiani quando vengono disattese. Un’indignazione violenta e sproporzionata rispetto a quella riservata alle violazioni dei diritti umani dei suoi vicini perché, anche se per fortuna non ci tocca combattere, se lo fa Israele è un po’ come se fossimo noi.