Perché nazionalizzare l’ex Ilva di Taranto non è la soluzione

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Perché nazionalizzare l’ex Ilva di Taranto non è la soluzione

Perché nazionalizzare l’ex Ilva di Taranto non è la soluzione

02 Dicembre 2023

L’ex Ilva di Taranto, ora Acciaierie d’Italia, appare sempre più come una balena spiaggiata, che affannosamente cerca di riprendere il mare largo. Le ultime notizie prospettano la deriva definitiva con la chiusura dell’altoforno 2 (rimarrebbe attivo solo l’altoforno 4) per la mancanza di fondi senza i quali la disponibilità di gas, già prorogata fino al 10 gennaio dopo una decisione del Tar della Lombardia, potrebbe fermarsi nel giro di poche settimane.

La storia è nota: la governance di quello che resta il più grande siderurgico d’Europa, che dà lavoro diretto e indiretto a circa 20 mila lavoratori, è divisa tra pubblico (Invitalia con il 32%) e il privato (il colosso Ancelor Mittal al 68%). Il socio privato – secondo le accuse dei sindacati – starebbe lentamente avviandosi verso il disimpegno con il calo della produzione, non investendo nella manutenzione e sicurezza degli impianti e collegando migliaia di dipendenti in Cig.

Basti pensare che dalle 9 milioni di tonnellate di produzioni all’anno nell’epoca d’oro si è scesi tra 2 e 3 milioni di tonnellate. La conseguenza? Il ricorso massiccio e costante alla cassa integrazione (almeno 6mila nel corso degli ultimi anni). Uno sbocco che rende la situazione tarantina sempre più incandescente.

Per non spegnere l’impianto (nonché forse l’ultima possibilità di salvare l’ex Ilva di Taranto da una lenta agonia) servirebbero oltre 300 milioni. Li versa il pubblico o il privato? Nei mesi scorsi si è parlato del memorandum dell’11 settembre tra governo e azienda per avviare la fase di decarbonizzazione che prevedrebbe uno stanziamento di 5,5 miliardi, divisi tra parte pubblica (2,3 miliardi del Renew Ue) e la parte restante dal privato.

In questo contesto – schematizzato nelle linee essenziali – emergono alcune questioni fondamentali: il sistema-Italia non può rinunciare all’acciaio prodotto a Taranto, in termini occupazionali, per la tenuta sociale di quell’area del Mezzogiorno, per l’impatto sulla produzione del Pil nazionale e perché l’industria del Paese sarebbe costretta a comprare l’acciaio dall’estero, forse dallo stesso privato, con un aggravio ulteriore dei costi.

La seconda questione sulla quale in queste ore è calato il silenzio è relativa al monitoraggio della sicurezza e della salute dei cittadini di Taranto. In un recente convegno di Legambiente è emerso che la città è al primo posto in Puglia per la diffusione di tumori e patologie cardiovascolari e respiratorie. In questo triste scenario sono i bambini ad essere maggiormente colpiti. Pertanto sarebbe opportuno che anche la variabile-salute sia tenuta in considerazione accanto ad altre più prettamente industrialiste.

Il sindacato ha rivolto un appello alla premier Meloni e al governo in cui sembrano convivere due strategie politiche: una riconducibile ai ministri Giorgetti e Urso, che spingevano per un aumento della quota pubblica, e l’altra portata avanti da Fitto, ministro Pnrr e Sud, che conduce ad incalzare maggiormente il socio privato al rispetto degli accordi e abbassare la quota pubblica.

Da più parti – sindacali e politiche – si fa notare che la strategia Fitto, dinanzi al disimpegno del socio privato, avrebbe fatto il suo tempo e si spinge per la nazionalizzazione del siderurgico. Unico modo – si pensa- per garantire il posto di lavoro, la transizione tranquilla alla pensione di coloro che sono nelle condizioni di accedervi. Una soluzione che ricorderebbe molto la strada intrapresa – che è costata parecchio alle casse pubbliche – per salvare la linea aerea di Stato. Ma servirebbe per rilanciare la produttività?

Non si sentiva da tempo il termine nazionalizzazione. Che rimanda all’epoca delle industrie di Stato che – salvo una fase iniziale – non hanno brillato molto nella vita economica del Paese. Lo Stato “imprenditore” richiama – tra gli ultimi- le teorie degli economisti Piketty e Mazzuccato, fautori dell’intervento massiccio dello Stato nell’economia. Può essere questa la soluzione? Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, in un articolo sul Corriere, sostiene che “lo Stato non può essere imprenditore per la semplice ragione che l’imprenditore rischia di suo, può avere grandi guadagni ma anche chiudere bottega”.

Lo Stato imprenditore veicola spesa pubblica che, spesso ma non sempre, significa debito. Ma il problema è che i debiti vanno pagati. Subito oppure da figli e nipoti. Quindi: che si parli di nazionalizzazione (senza, per il momento, prendere in considerazione la questione del parere della Commissione europea) in un tempo in cui al governo ci sono forze che si dichiarano liberali è un altro paradosso della politica italiana. Ma tant’è.