Perchè ogni Italia ha il suo Risorgimento

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Perchè ogni Italia ha il suo Risorgimento

20 Luglio 2007

Per le discussioni in corso dagli anni ’90 sul Risorgimento, può essere utile un bel libro di Albert Russell Ascoli e Krystyna von Henneberg, Making and remaking Italy. The Cultivation of National Identity around the Risorgimento. Gli autori sottolineano come a ogni grande cambiamento politico – dal fascismo alla prima repubblica al suo collasso negli anni ’90 – in Italia si rimodelli il Risorgimento e si ridiscuta l’identità dei suoi maggiori protagonisti e i tanti conflitti per cui all’epoca ci si divise anche tra neo-guelfi e neo-ghibellini. Gli scontri ideologici e politico-culturali sul Risorgimento sono spesso provocati da antagonismi regionali secolari. Se per Gramsci il Risorgimento era una conquista regia del Sud e Garibaldi è stato dipinto negli anni ’70-‘80 come un fucilatore di contadini meridionali, per la Lega Nord anni ’90, quella di Roma ladrona, il Risorgimento è una sorta di complotto contro il Nord e per alcuni cattolici un complotto massonico ai danni del papa. In realtà, se l’Italia fosse stata divisa come la Gran Bretagna in tre parti, Inghilterra, Scozia e Galles, divenuti poi Regno Unito, sarebbe stato tutto più semplice. Però non sarebbe la stessa e non avrebbe lo stesso fascino, né lo stesso carattere, per il quale nei momenti peggiori dà il meglio di sé. Ascoli e von Henneberg rilevano come durante il Risorgimento una delle opere preferite dal pubblico era il Canto degli italiani di Pietro Cornali, che celebrava le Lega Lombarda e i Vespri siciliani, e che agli scrittori dell’800 Mazzini indicò come modello etico-politico Dante, il poeta più celebrato allora insieme a Manzoni.

In tutte le nazioni esiste la rivalità con la capitale (si pensi alle accuse contro Parigi e Londra delle città francesi e britanniche) e in Italia, con tante città belle, ricche e piene di storia, non poteva mancare l’antagonismo con Roma, una delle città mito dell’Occidente. Ed è certamente un segno di mutamento della cultura inglese che Roma, dipinta con i più truci cliché durante la seconda guerra mondiale e negli anni ’50, sia stata considerata dagli anni ’70 e ’80 da Quentin Skinner la città fondante del repubblicanesimo. D’altronde, sappiamo bene come la rivoluzione francese si ispirò alla repubblica romana, il periodo napoleonico alla Roma imperiale e la Londra sei-settecentesca adorò Vitruvio e Palladio. Basta l’architettura della Londra neoclassica e della Casa Bianca per capire il rapporto con l’Italia.

E’ comprensibile che l’Inghilterra guardasse con simpatia all’unificazione politica italiana, come a quella greca, e aiutasse Garibaldi e Mazzini. Né va dimenticato che senza la sconfitta di Sedan Napoleone III avrebbe mandato le sue truppe a difendere Pio IX e l’annessione di Roma al Regno d’Italia non sarebbe stata possibile. Erano state truppe francesi a combattere la repubblica romana del 1849 e a riportare a Roma il papa, rifugiato a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando II delle Due Sicilie. Ed era stato Nelson a soccorrere i Borboni, a fare impiccare l’ammiraglio Caracciolo e a dare il colpo finale alla repubblicana napoletana del 1799. L’Italia ha sempre esercitato attrazione e interesse. E’ un paese con città mitiche e rivali come Venezia e Firenze, che hanno influenzato l’economia e la politica europea per lunghi periodi. Nel Trecento i Bardi finanziavano i sovrani inglesi e la Firenze medicea non dette solo papi a Roma, ma regine alla Francia: Caterina, ma anche Maria, moglie di Enrico IV.

Impresa difficile unificare un paese così complesso e carico di storia. Occorreva la genialità di Cavour e fu una sventura la sua morte nel 1861, perché la sua lungimiranza politica avrebbe forse trovato una soluzione per avere Roma capitale del Regno d’Italia senza troppe lacerazioni. Cavour certamente non ignorava che alla grande vittoria di Lepanto contro i turchi, dove combatté la migliore aristocrazia veneziana, romana e fiorentina, anche Emanuele Filiberto di Savoia inviò una piccola flotta. Per capire le spaccature provocate dalla breccia di Porta Pia nel neonato stato italiano vanno ricordate le polemiche del liberale e laico Benedetto Croce con la Roma di Nathan e del principe Caetani che celebrava a Campo dei Fiori Giordano Bruno martire del libero pensiero con le bandiere rosse. Nel febbraio del 1913, un giovanissimo Guido De Ruggiero, liberale e tra i pochi intellettuali pubblicamente antifascisti fin dal ‘19, invitato a tenere una conferenza alla contromanifestazione organizzata dai nazionalisti per l’anniversario della morte di Giordano Bruno, chiederà consiglio a Croce sull’opportunità di partecipare e Croce lo incoraggerà ad andare e a combattere “la falsificazione democratica senza appoggiare quella nazionalistica”. Nel primo quarto del ‘900, Benedetto Croce, il leader intellettuale più illustre dell’antifascismo liberale, che aveva convissuto con Angelina Zampanelli e che voterà contro il Concordato, criticherà l’anticlericalismo di marca positivista e socialista, tanto da essere definito recentemente come un ateo devoto. Quella breccia non fu quindi indolore per la storia politica italiana e assunse connotati forse imprevedibili nel 1871. In ogni caso, nelle discussioni sul Risorgimento, è necessario, come dice Cartesio, come accade quando ci si perde in una foresta, non tornare sempre indietro e riuscire a imboccare una strada per uscirne.