Perché quello del call center di Padova è un caso a sé
17 Aprile 2008
I lavoratori dei call center che prestano servizio nella
struttura di una società hanno diritto ad un contratto di lavoro subordinato
dal momento che utilizzano attrezzature e materiale aziendale e non possono
essere considerati, dal datore, come lavoratori autonomi. Lo ha sottolineato la
Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 9812 della sezione lavoro.
Con
questo verdetto la Suprema Corte ha respinto il ricorso della Solidea sas, una
società di Padova che aveva un call center nel settore pubblicitario. Si è
chiusa così una lunga vicenda giudiziaria che aveva percorso tutti i gradi del
giudizio di merito prima di arrivare alla sentenza che ha chiuso il caso.
La
notizia, anticipata con notevole evidenza da un grande quotidiano, è subito
rimbalzata al Ministero del Lavoro.
Il ministro uscente (e non rientrante per
un bel numero di anni) Cesare Damiano, ha rilasciato una dichiarazione con la
quale attribuisce a se stesso il merito dell’esito positivo della vertenza e
del contenzioso. Pur senza negare a Cesare quel che spetta a Cesare è bene tentare sinteticamente
qualche ulteriore considerazione, prima che il caso della ditta padovana venga
arruolato nelle crociate contro il precariato che da anni ammorbano l’aria (ce
le troviamo nei libri e al cinema, nei talk show televisivi) senza portare – a
conti fatti – molta fortuna elettorale ai tanti predicatori.
Va ricordato,
innanzi tutto, che le sentenze – anche quelle della Cassazione – “fanno
stato” solo nella concreta fattispecie condotta in giudizio.
Si vede,
allora, che nel caso concreto di quei lavoratori ricorrenti, la Corte ha
individuato le caratteristiche di un rapporto di lavoro dipendente. E
doverosamente ha condannato l’azienda ad assumere in modo corretto quel
personale, con tutte le conseguenze retributive e previdenziali previste. Nulla
da dire. Salvo ricordare un principio generale del diritto secondo il quale
ogni tipo di lavoro può essere eseguito avvalendosi di un rapporto lavorativo
differente.
Pertanto sono soltanto quei lavoratori, occupati in quel particolare call
center ad esser stati considerati alle dipendenze. Non è detto, così, che la
medesima qualificazione valga per tutti coloro che svolgono tale attività (da
noi sono circa 220mila, anche se la sinistra ne parla con la stessa foga che
quarant’anni or sono dedicava a milioni
di tute blu). Chiamati nuovamente a
pronunciarsi i giudici sarebbero tenuti ad interpretare le leggi vigenti
applicandole al caso concreto, senza pregiudiziali di alcun tipo.
La seconda
considerazione chiama in causa le circolari citate dal ministro Damiano nella
sua dichiarazione. Tali direttive – solitamente rivolte ai servizi ispettivi
ministeriali e a quelli degli enti previdenziali – non sarebbero mai state possibili in mancanza
della legge Biagi, che ha fornito i criteri per riconoscere e combattere le
collaborazioni fasulle. La medesima opportunità è valsa certamente per la
Suprema Corte.
Torna ad essere provato così che la legge n.30 del 2003 tutela
il lavoro regolare e contrasta quello sommerso, mentre cerca di disciplinare
correttamente i rapporti ‘grigi’, a metà strada tra il lavoro dipendente e
quello autonomo, che esistevano ben prima dell’avvio, nel 1997, della moderna
legislazione del lavoro. Si tratta di
tipologie lavorative, diffuse ovunque, che non sono nate dalla perfidia delle norme volute dai governi
‘nemici dei lavoratori’, ma dal mercato e dall’esigenza di liberarsi il più
possibile dei soliti lacci e laccioli. Una riflessione conclusiva sui problemi posti dalla sentenza ci induce
ad intervenire a ‘gamba tesa’ nel dibattito aperto sulla questione del lavoro
precario.
Diceva George Danton che le persone sono titolari soltanto di quei
diritti che esse sono capaci di difendere. E come si può far valere un diritto
nel mondo del lavoro? In diversi modi,
ma solo in quelli: col negoziato sindacale sostenuto dall’esercizio del diritto
di sciopero oppure rivolgendosi al proprio giudice naturale (“ci sarà pure un
giudice a Berlino?” si chiedeva quel contadino ai tempi di Federico il Grande).
Tertium non datur. Nemmeno per i lavoratori precari, per fortuna dei
quali le norme poste a loro tutela esistono. Basta solo farle valere, magari
individuando forme e strumenti di una giustizia più rapida ed efficiente.
Infine, verrà pure il giorno nel quale i call center italiani finiranno in
Romania. Dopo tutti saremo felici. Magari con qualche posto di lavoro (ancorché “maledetto” e precario) in meno.