Perchè un uomo spiato non è più  un uomo libero

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Perchè un uomo spiato non è più un uomo libero

04 Luglio 2008

Immersa nel verde della Longhouse Reserve, negli Hamptons, ho letto un pamphlet di William Faulkner intitolato “Privacy”. 

La furia letteraria  del premio Nobel fu innescata da un servizio sulla sua vita privata apparso sulla rivista Life Magazine. L’articolo di Robert Coughlan accantonava come una scopa usata la sua vita letteraria per raccontare il suo mondo intimo, i suoi affetti, i suoi amori. La vita in piazza di Faulkner diventa il primo picco sismografico d’un fenomeno subnormale, una cloroformizzante consuetudine: pentole imbrattate, spazzolino da denti consumato e lenzuola sporche diventano oggetto d’esposizione. La cucina, il bagno e la camera da letto si spalancano e diventano materiale da rotativa.  Pornografia.

Faulkner cattura l’episodio personale e lo trasforma nella fine dell’individuo, della persona in sé, del “sogno americano”. Non voglio annoiare i miei due o trecento lettori con un’analisi del testo faulkneriano, ma la lettura del libello è utile per capire come il tramonto della privacy abbia sfigurato la libertà personale, prima pietra della democrazia.

Mi piacerebbe che i lettori dell’Occidentale riflettessero su queste parole di Faulkner: “Questo era il Sogno Americano: un asilo sacro, un santuario in terra per l’uomo in quanto individuo: una condizione nella quale egli potesse essere libero non soltanto dalle vecchie istituzioni gerarchiche del potere arbitrario, chiuse e corporative, che lo avevano oppresso in quanto massa, ma libero da quella massa nella quale le gerarchie della chiesa e dello stato lo avevano costretto e tenuto schiavo come individuo e, come individuo, impotente”. Correva l’anno 1955.

Oggi siamo liberi? E’ questa la domanda che mi sono posta dopo aver chiuso l’ultima pagina del libro. Ho sempre pensato che l’America fosse il custode della libertà, quella che il poeta Walt Whitman declamava in versi (“Io canto l’individuo, la singola persona”) e i padri fondatori scolpivano sulle tavole della legge nella Convenzione di Philadelphia. Evaporato il sogno, nel suolo dei cinquanta stati è rimasto però il segno di quelle parole, l’Idea è rimasta viva. L’ingranaggio inesorabile dello star system è penetrato anche nei club del business e della politica, allargando i patrimoni ma riducendo la cultura e il bon ton del discorso pubblico. Il dibattito della Nazione s’è banalizzato, ma restano ancora esempi da seguire, modelli da guardare, libri e giornali da leggere. Sono come le mitiche pepite del Klondike, bisogna setacciare  in mezzo al fango, alla melma, alla polvere di stelle.

 E’ l’Italia? Il Paese visto da lontano mi sembra una massa urlante, un singulto di Baudelaire: “Campane sbattono con furia e lanciano verso il cielo un urlo orrendo, simili a spiriti vaganti e senza patria, che si mettono a gemere ostinatamente”. Frastuono e intercettazioni.

 Il Belpaese fino a 15 anni fa sembrava conservare ancora il corpo sano e i tratti di una buona borghesia. Lavoratrice e peccatrice. Allora s’usava ancora il motto che “i panni sporchi si lavano in casa” e poi, improvvisamente, si è cominciato a immergerli sciaguratamente nel lavatoio pubblico, ma senza il sapone bianco di una volta e le procaci e silenti lavandaie del paese. Una repubblica (af)fondata su tensioattivi e telefonini non ha futuro.

Così al nobile commercio di notizie s’è sostituito lo smercio di verbali, un passo enorme e un’abissale differenza con quanto è accaduto negli Stati Uniti: non sono stati l’economia, il mercato, l’utile virtuale e il pettegolezzo prezzolato a rovesciare i pezzi della scacchiera. Il principale motore dello sconvolgimento della coscienza del Paese è stato quello sovralimentato della magistratura. Le toghe di grossa (e ora anche piccola) cilindrata hanno archiviato il dovere della riservatezza e il principio della libertà individuale, occupato lo spazio della politica e usato la tecnologia non come mezzo ma come fine.

Le intercettazioni telefoniche e ambientali di massa hanno inoculato nella collettività un virus letale. Negli Stati Uniti c’è una discussione pubblica sul ruolo della National Security Agency e la lotta al terrorismo, sulla riservatezza delle comunicazioni elettroniche, sullo spettro d’azione dell’agenzia, ma si tratta di qualcosa d’incomparabile rispetto a quello che accade in Italia. Non c’è un potere che straripa, c’è una dialettica intensa. Non c’è un’opinione pubblica che assorbe come una spugna le intercettazioni private, c’è una democrazia che discute sulla propria libertà, sui limiti del governo, la sicurezza dello Stato e l’inviolabile corrispondenza di uomini e donne.

Quello italiano non è un problema solo politico e istituzionale. Non è un grezzo affare di Palazzo. Non è un tema d’alto e basso bordo. C’è molto di più. Leggendo Faulkner, ho cercato di rovistare nella memoria ma non sono riuscita a ripescare alcun libro recente scritto da un autore italiano su un tema così aperto, lacerante, drammatico. Questo mi pare il segno più tangibile della crisi di un Paese, di una cultura un tempo geniale: l’assenza di uno scrittore che come Faulkner abbia la potenza e la visione per raccontare questa caduta e mostrarci –  profeticamente – come in quadro apocalittico di Hyronimus Bosch, le rovine fumanti della nostra civiltà. Palpitano le intercettazioni e muore d’infarto la parola.