Perdere il Mar Rosso sarebbe un disastro per l’Occidente
21 Giugno 2011
La crisi politica apertasi in Yemen in questi mesi pone la comunità internazionale davanti a tutta una serie di interrogativi riguardanti non solo la sua stabilità ma quella dell’intera area del Mar Rosso. Posto all’estremità occidentale della penisola arabica, lo Yemen è uno dei più Paesi più poveri della regione, con un economia debole, risorse naturali, tra cui l’acqua, andate progressivamente riducendosi in questi anni ed una popolazione in rapida crescita della quale il 40% vive sotto la soglia di povertà. Le strutture istituzionali yemenite sono poi fragili, con uno Stato dove per mantenere il potere risultano determinanti i legami tribali ed in cui la corruzione risulta radicata in tutti i settori della società. Ma per la sua posizione geografica, questo Paese riveste comunque un’importanza strategica fondamentale per la sicurezza e gli equilibri geopolitici della regione.
Situato in una zona – cuscinetto tra il corno d’Africa e la penisola arabica, lo Yemen controlla lo Stretto di Bab el–Mandeb, un passaggio largo diciotto miglia dal quale si accede al Mar Rosso, un corridoio in cui ogni anno transitano oltre tre milioni di barili di petrolio una cifra che, stando alle stime fornite dall’intelligence del Dipartimento dell’Energia statunitense, rende questa via marittima una delle più trafficate ed importanti per l’economia internazionale. Inoltre, non va dimenticato come unità costiere yemenite partecipano alle operazioni di contrasto alla pirateria pattugliando le acque antistanti il golfo di Aden. Lo Yemen è quindi uno Stato in prima linea nella lotta al terrorismo e la cui tenuta è considerata di fondamentale importanza per la sicurezza della regione mediorientale. Ecco perché le vicende politiche interne del Paese sono seguite con estrema attenzione a Washington e nelle capitali europee, in quanto la preoccupazione degli osservatori è che le tensioni politiche possano indebolire le già fragili strutture statali del Paese favorendo così le attività dei gruppi legati ad Al Qaeda.
Tuttavia, pur collaborando attivamente con la Casa Bianca nell’azione contro il terrorismo, il regime del Presidente Saleh, stando a quanto riportato da fonti militari statunitensi, negli ultimi tempi avrebbe assunto una posizione più conciliante contro i gruppi fondamentalisti allo scopo di non apparire come troppo appiattito sulle posizioni statunitensi. Difatti, se l’attività dei gruppi islamici radicali ha sempre trovato terreno fertile nel Paese, basti pensare alle migliaia di yemeniti presenti in Afghanistan durante gli anni della lotta contro l’occupazione sovietica, è però a partire dal 2006 che il fenomeno qaedista ha cominciato a radicarsi nello Yemen. La fuga di alcuni terroristi dalle carceri locali avvenuta cinque anni fa ha spinto le fazioni islamiche prima a riorganizzarsi e poi a formare nel 2008 un’alleanza chiamata “Al – Qaeda nella Penisola Arabica” ( AQAB ), un cartello guidato da Nasser al – Wahishi i cui legami con il movimento qaedista sono considerati essere dagli analisti più ideologici che organizzativi. Un crollo del regime di Saleh, od anche una fase di prolungata crisi interna nel Paese, renderebbero instabile uno degli Stati più importanti per gli equilibri strategici regionali nonché per la stessa sicurezza del Mar Rosso.
Alla sponda opposta delle coste yemenite si trova infatti l’Eritrea, dove il regime di Isayas Afeworki è ritenuto uno dei più repressivi ed autoritari del continente africano ma, soprattutto, è accusato dal Dipartimento di Stato americano di sostenere le forze radicali islamiche presenti in Somalia. Già nel 2007 l’Amministrazione Bush aveva espresso l’intenzione di inserire l’Eritrea nella lista degli Stati che appoggiavano il terrorismo internazionale, sostenendo come il governo di Asmara avesse fornito una notevole quantità di armi al gruppo di “Al Shabaab”, un movimento legato ad Al Qaeda attivo nella parte meridionale del territorio somalo ed il cui obiettivo era il rovesciamento del governo provvisorio insediatosi a Mogadiscio. Con l’avvento alla Casa Bianca di Barack Obama i rapporti sono ulteriormente peggiorati, tanto che il Segretario di Stato Hillary Clinton ha avvertito che potrebbero essere prese delle misure contro l’Eritrea se questa continuerà a sostenere le forze islamiche somale.
Ed anche la situazione politica egiziana suscita non poca apprensione tra gli osservatori. Se lo Yemen e l’Eritrea hanno in mano l’accesso al Mar Rosso è però l’Egitto che controlla il passaggio del canale di Suez e con esso la quasi totalità del traffico petrolifero e commerciale esistente tra il Medio – Oriente ed il Mar Mediterraneo. La giunta militare installatasi al potere dopo la caduta del regime di Mubarak ha avviato una politica di distensione verso Teheran, come dimostra l’autorizzazione ad attraversare il canale di Suez concessa dal governo de Il Cairo alle due navi iraniani che lo scorso febbraio si erano recate in Siria per una visita ufficiale. Recentemente, i due Paesi hanno inoltre deciso di avviare dei negoziati per ristabilire piene relazioni diplomatiche dopo che queste erano state interrotte nel 1979 con l’avvento in Iran della Repubblica Islamica.
E se a questo si aggiunge il fatto che le prossime elezioni legislative dovrebbero vedere l’affermazione dei “Fratelli Musulmani” e forse il loro ingresso nell’esecutivo, si capisce perché gli eventi egiziani vengano osservati con tanta attenzione negli ambienti diplomatici. Davanti ad un Egitto avviato ad una “pace fredda” con Israele ed assai più cauto nella sua linea politica verso gli Stati Uniti, se anche lo Yemen precipitasse nel caos lo scenario di un Mar Rosso controllato da Paesi il cui orientamento non sarebbe dei più favorevoli all’occidente potrebbe concretizzarsi, con conseguenze assai rilevanti per la sicurezza e l’economia internazionali.