Peres dà lezioni di stile a D’Alema

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Peres dà lezioni di stile a D’Alema

06 Settembre 2007

Alla fine ha parlato a braccio. Dicendo, per la gioia del rabbino capo Riccardo Di Segni e del presidente della comunità ebraica romana Leone Paserman, che lui qui nella capitale non si era mai sentito così ebreo in tutta la sua vita. Che ringraziava Prodi e Marrazzo per il cibo “kosher lemehadrie” (cioè kosher fino all’ortodossia) gentilmente offerto nella colazione di lavoro a Palazzo Chigi. E riassumendo, con un frase che ha simboleggiato tutto il suo pensiero, che “se ci sarà la pace per il mondo ci sarà la pace anche per Israele e se ci sarà la pace per Israele ci sarà la pace anche per il mondo”.

Per la felicità di Massimo D’Alema, Shimon Peres, il presidente della Repubblica israeliana, uomo di sinistra, in questi giorni in viaggio in Italia, ha anche tessuto un imbarazzante elogio del nostro paese: “Mai sentito così amico come oggi”. Ma le cose, purtroppo, stanno ben differentemente, se è vero – come è vero – che la missione del presidente israeliano, grande vecchio della politica dello stato ebraico (qualcuno lo paragona ad Andreotti per il suo cinismo, qualcun altro non dimenticava che fu lui a dotare Israele dell’arma nucleare e del reattore di Dimona), si svolgerà solo oggi con l’atteso incontro con Benedetto XVI. A papa Ratzinger Peres chiederà quell’intercessione diplomatica non riuscita all’Italia per portare alla liberazione dei due soldati rapiti da Hezbollah nel territorio israeliano ai confini con il Libano nel luglio del 2006, Ehud Goldwasser e Eldad Regev, e di quello rapito nel giugno dello stesso anno nel territorio israeliano al confine con Gaza da Hamas, il caporale Gilad Shalit.

Le foto dei tre rapiti sono state esposte ieri durante tutta la funzione in Sinagoga e specialmente durante l’emozionante discorso di Peres. Oggi il fantasma di queste persone, per le quali si teme il peggio, accompagnerà Peres fino dal pontefice. L’Italia che nell’anno passato si sarebbe dovuta impegnare a spingere diplomaticamente per una risoluzione della questione, in realtà ben poco ha fatto nonostante le assicurazioni date da D’Alema in persona a Karnit Goldwasser, l’eroica moglie di Ehud. Infatti l’iniziativa diplomatica è consistita in una mozione parlamentare letta e illustrata dal senatore a vita Giulio Andreotti a palazzo Madama. Poi più nulla. Mentre intanto, dimenticandosi dei tre soldati rapiti dai terroristi, sia Prodi sia il ministro degli Esteri in carica si sperticavano in pressioni sulla comunità internazionale perché Hamas e Hezbollah “non venissero regalati ad al Qaeda”. E Hamas ed Hezbollah sono appunto le formazioni guerrigliere responsabili di tali rapimenti.

Peres peraltro non è la colomba su cui i giornali italiani come “Repubblica” favoleggiano. E infatti ieri non ha mancato di sottolineare come gli ormai quasi sessanta anni di vita dello stato ebraico siano stati caratterizzati da sette guerre e da due intifade. “Tutte guerre vinte perché, per noi perderne una avrebbe significato perdere tutto”. Peraltro è bene ricordare, che, a parte la seconda intifada, tutte le altre guerre sono state fatte e vinte da esecutivi di sinistra.

Ma la storia quando si parla di Israele viene spesso dimenticata o distorta. Esattamente come ha fatto mercoledì lo stesso Massimo D’Alema a Gerusalemme, inanellando una clamorosa gaffe davanti ai giornalisti presenti alla conferenza stampa congiunta con la sua omologa israeliana Tzipi Livni. D’Alema, infatti, citando malamente Ehud Barak, e credendo di fare lo spiritoso, ha detto che “in Medio Oriente non si perde mai un’occasione di perdere un’occasione per fare la pace, come ha detto un vostro uomo politico”. Ma la citazione collettivizzava ciò che in realtà era riferito ai soli palestinesi. E la Livni non ha mancato di farglielo notare. Davanti ai cronisti.

Ieri sera, però, in Sinagoga, almeno tutti gli ebrei presenti, la storia (gli antefatti e i retroscena) di questi sessanta anni di conflitti tra arabi e israeliani la conoscevano a menadito. E se ne è avuta un’eco polemica anche nelle presentazioni di saluto fatte dai rappresentanti della comunità ebraica romana a Peres. Il rabbino capo Riccardo Di Segni ha detto che “questa di Roma è la comunità più sionista e più antica del mondo e che è resistita a tutte le persecuzioni da 2200 anni a questa parte e oggi sostiene convintamente lo stato di Israele contro chi vorrebbe distruggerlo”. Leone Paserman, che di suddetta comunità è da anni il presidente, è andato oltre affermando “che per Israele e la sua esistenza gli ebrei di destra e di sinistra sono tutti uniti, anche contro chi vorrebbe dividerci tra buoni e cattivi a seconda della posizione più o meno critica verso la politica e il governo di questo stato”. E qui era difficile fare finta di non capire che Paserman si riferiva a una sciocca intervista che sempre il solito D’Alema aveva dato all’ “Unità” qualche mese addietro.

Renzo Gattegna, che è colui che è succeduto a capo delle Unione delle comunità ebraiche italiane al mitico Amos Luzzatto, ha invece sottolineato come ci siano “avversari potenti che quotidianamente lavorano per offendere e deturpare l’immagine di Israele e per minacciarne la legittimità internazionale e la stessa esistenza”. Anche in questo caso non era difficile cogliere un’allusione a quanto si sta preparando a spese dell’Onu nella conferenza ribattezzata Durban II, dove un comitato di stati, tra cui la Libia, l’Iran, il Pakistan e Cuba, tenterà di nuovo di fare passare l’assioma che “sionismo è uguale a razzismo”.

Alla fine Peres ha ricordato come, dopo tante guerre vinte, quella più importante, da combattere e soprattutto da non perdere, riguarda tutta la comunità internazionale ed è quella per costruire una vera pace in Medio Oriente. Peres dice che se i palestinesi abbandoneranno la lotta armata e il terzomondismo, Israele sarà pronto a dividere con loro il suo benessere e la sua felicità. C’è da credergli visto che oggi Peres auspica il dialogo con il moderato Abu Mazen che in passato però era un terrorista anche lui, finanziatore, tra l’altro, del mortale attentato agli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco nel 1972.  E la coincidenza ha fatto sì che quel tragico episodio, che si svolse proprio il 5 settembre di 35 anni orsono, venisse celebrato anch’esso ieri in Sinagoga con un minuto di silenzio.