Pesca del tonno e corallo rosso, l’Italia si piega alla sorveglianza della UE
19 Marzo 2010
Si sta tenendo in questi giorni a Doha, in Qatar, la 15ma riunione mondiale della Conferenza delle parti (CoP) CITES, la Convenzione Internazionale sul Commercio delle Specie in pericolo di estinzione della Fauna e della Flora. Questo Organismo, il cui Segretariato è a Ginevra, rappresenta la camera di compensazione mondiale dove i paesi si confrontano per discutere come gestire e salvaguardare il loro patrimonio faunistico e botanico. E’ qui che si discute di coccodrilli, rane di varie specie e forme, delfini, squali, fiori e piante cercando di trovare soluzioni adeguate a salvaguardare la specie dall’estinzione, combattere il commercio illegale, il bracconaggio e provando a disciplinare il loro commercio.
Scienziati, amministratori dei Ministeri interessati e burocrati addetti ai lavori nonché Organizzazioni non Governative si incontrano periodicamente per cercare risposte chiare e soluzioni gestibili che si possano tradurre in iniziative concrete rispondenti alla missione della CITES. Questa è quello che dovrebbe accadere in questo tipo di Organizzazione internazionale. Come sempre, però, le cose non stanno proprio così ed i motivi sono relativamente semplici: si discute di commercio internazionale e si toccano, quindi, interessi forti sovente elementi di forte contrasto tra singoli paesi o intere aree del Globo.
Da una parte si trovano, in genere, i paesi del G8 ed altri ricchi che sono animati, a parole, da velleità ambientaliste e di salvaguardia che derivano dalla pressione, spesso feroce, dei gruppi verdi nei confronti dei rispettivi governi. Dall’altra si confrontano i paesi in via di sviluppo, spesso ricchi di specie più o meno rare, e che con il loro sfruttamento e commercio (non sempre realizzati in maniera canonica per così dire) ci campano arricchendo sovente i governanti al potere. Su questo si inserisce poi la tradizione secolare radicata in differenti nazioni di un uso di alcuni animali e piante dei quali, pur essendo a rischio di estinzione, non riescono a fare a meno per necessità culturale, alimentare o per tradizione storica.
Di colpo, tutta la visione romantica di una giusta battaglia per la salvaguardia della natura si trasforma in una lotta politica, spesso aspra, giocata con tutti i mezzi (inclusi quelli meno trasparenti) per arrivare a determinare le giuste maggioranze per far passare o rigettare una proposta particolare. Su tutto aleggia poi la vacuità delle Organizzazioni di stampo onusiano dove il lavoro è spesso volutamente appesantito e rallentato dalla incessante negoziazione sulla scelta delle singole parole privilegiando la forma rispetto alla sostanza. Questo appare estremamente evidente nelle riunioni, sia quelle ristrette che quelle plenarie, dove a seconda che intervenga un esperto del campo o un burocrate la discussione prende rapidamente velocità e direzione differenti, ma raramente verso un obiettivo preciso che si voglia ottenere in termini rapidi.
In questo gioco di rimpallo le alleanze si creano e si distruggono nel tempo di una nottata lasciando sul terreno feriti e morti che si vendicano immancabilmente sul tema successivo in programma: naturalmente nessuno alzerà mai la voce ed i sorrisi si sprecheranno mentre i coltelli si preparano al colpo finale. In questa sessione della CoP 15, che vede presenti le Delegazioni di 133 paesi, sono molti i temi di interesse, ciascuno con le proprie luci ed ombre. Oggi, per esempio, è stata respinta la proposta USA di “salvaguardare” gli orsi polari fortemente osteggiata dal Canada e molti altri paesi interessati. Hanno vinto gli Inuit, il popolo pescatore dell’estremo nord, che rivendicavano il diritto alla caccia di una specie che rappresenta il loro piatto base mostrando come il declino del numero di bestie censite non è dovuto a questa causa ma bensì alla riduzione dei ghiacci polari preda dei cambiamenti climatici; pertanto, è su questo aspetto che le nazioni devono intervenire per garantire la salvaguardia della specie.
Un altro problema importante in discussione riguarda gli squali:apparentemente i dati indicano una seria riduzione di capi in tutti gli oceani del mondo di questo predatore che ha il ruolo importantissimo di “spazzino del mare”. La posizione di salvaguardia si scontra, però, contro gli interessi della Cina in particolare e degli altri paesi asiatici abituati da sempre a nutrirsi delle preziose pinne di pescecane che, da sole, valgono alla sorgente, dal pescatore, centinaia di euro. Da qui una caccia spietata allo squalo che si concretizza, una volta pescato, nel tagliargli a vivo le pinne per poi rigettare in acqua il corpo mutilato ed agonizzante: le immagini mostrate sono particolarmente forti. Ad oggi non è chiaro quali posizioni assumerà la maggioranza dei votanti su questo tema.
L’Italia è particolarmente interessata a due temi specifici: la richiesta di controllo stretto nella pesca del tonno che rischia di essere definitivamente bloccata al commercio e ridotta alla sola pesca personale ed il problema dei vincoli che si vogliono porre sulla raccolta e la commercializzazione del Corallo Rosso mediterraneo. In entrambi i casi gli argomenti, come tutti gli altri, sono prima stati discussi e concordati in ambito dell’Unione Europea dove gli equilibri in gioco non sempre tengono nel giusto conto specifici interessi nazionali. Nel caso del tonno, le Marienerie di pesca dei paesi rivieraschi subiranno, se passerà il blocco, un danno incalcolabile perché i limiti imposti renderanno automaticamente non economica la pesca stessa: la soluzione europea a questa situazione è stata, come spesso si verifica, la proposta di definire eventuali “integrazioni economiche” di supporto alle categorie in crisi. Classica risposta auto-assolutoria che si determina perché non si è pensato per tempo ( i pescatori non sono molti e quindi portano pochi voti ai politici) ad affrontare il problema in maniera efficace per tentare di risolverlo in positivo.
Il caso del Corallo Rosso è ancora più sintomatico della casualità di atteggiamento che si determina sui vari temi. Gli USA chiedono da anni una regolamentazione della vendita perché condizionati da forti spinte ambientaliste nel loro paese che, però, non sono asettiche. Infatti le associazioni proponenti sono finanziate da una Fondazione che fa capo ad una grande azienda di gioielli in rotta di collisione commerciale con i più grandi produttori mondiali di corallo: gli italiani di Torre del Greco che gestiscono circa il 70-75% del mercato mondiale.
Fuori verbale gli esperti USA confessano che il problema per il Mediterraneo non esisterebbe se fosse possibile applicare una legge di gestione estremamente efficace, a livello mediterraneo, come quella varata da anni dalla Sardegna. Questo non è il caso e da qui la loro richiesta che è sostenuta anche dall’Unione Europea largamente condizionata da posizioni oltranziste ambientali dei paesi nordici che, peraltro, ignorano tutto sul corallo rosso sia dal punto di vista tecnico che scientifico. Questa posizione aprioristica è stata assunta nel corso degli ultimi anni senza che effettivamente a livello italiano si sia stati capaci di mettere in piedi un efficace coordinamento tra Amministrazioni per contrare quanto succedeva. A fronte di un Ministero dell’Ambiente piuttosto attivo, altri hanno tentennato o non sostenuto in maniera ottimale i nostri interessi. Il risultato è stato il balletto di dichiarazioni politiche apparse pochi giorni prima della riunione di Doha: un giorno si offriva il massimo sostegno agli interessi del mondo del lavoro del corallo ed il giorno successivo, nella riunione del consiglio dei Ministri europei competenti, ci si doveva appiattire sulla posizione della maggioranza contraria che è diventata la posizione ufficiale dell’Europa.
Si poteva fare qualcosa di più per salvaguardare i nostri interessi? Forse sì, ma bisognava muoversi molto prima, anni fa, e gestire il problema in maniera più coordinata di quanto sia successo da parte dei vari attori: ufficialmente voteremo uniti con l’Europa per il controllo del commercio del Corallo ma con la segreta speranza che la proposta non passi grazie al fuoco di sbarramento messo in atto dal Giappone e da altri paesi che sarebbero colpiti da questa scelta: questioni economiche e politiche determineranno le posizioni di voto senza molta considerazione dei risultati scientifici che pendono a sfavore dell’appoggio della proposta statunitense. Come sempre, vincerà il pragmatismo ed il “peso lobbistico” dei paesi maggiormente operativi, ma per terra c’è già uno sconfitto, la coerenza.