Petrolio, Obama può salvare l’ambiente come fece l’Agip a Trecate

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Petrolio, Obama può salvare l’ambiente come fece l’Agip a Trecate

12 Maggio 2010

Giunto in Louisiana per fare il punto sui danni provocati dall’esplosione della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, il presidente Barack Obama non ha usato mezzi termini: “È un disastro ambientale senza precedenti”, la BP (British Petroleum) è responsabile di quanto accaduto e dovrà pagare i danni. Intanto, però, c’è un flusso di petrolio da arginare e un intero ecosistema da mettere in salvo. Le immagini trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo sono impressionanti: come sarà possibile, viene da chiedersi, tornare alla normalità? Per gran parte degli italiani, la marea nera che minaccia gli Stati Uniti è forse una tragedia lontana. Per gli abitanti del novarese, però, il “vulcano” Deepwater Horizon ha un qualcosa di terribilmente familiare: sì perché, guardando quelle immagini, la memoria degli abitanti di Trecate – una città di 20.000 abitanti tra Novara e Milano – corre inevitabilmente a un altro giorno maledetto, il 28 febbraio 1994. Oggi il petrolio attacca le coste americane dal mare, quel pomeriggio di sedici anni fa arrivò dal cielo: ma raccontare quanto accadde a Trecate, una realtà molto vicina a noi, ci aiuta a capire meglio cosa significa fare i conti con il petrolio impazzito. E – ancor più importante – come sia possibile risollevarsi, tanto nel Nord Italia quanto in Louisiana.

Piove nero sul Texas padano. Questa storia inizia negli anni Ottanta, quando gli abitanti del novarese e della valle del Ticino – tra Piemonte e Lombardia – scoprono di camminare sopra il petrolio. L’Eni scava, e un’area già celebre per le risaie e la bellezze naturali diventa presto un piccolo e ricco Texas, con pozzi e raffinerie. Fino al 1994, quando la zona conta ormai 18 pozzi in funzione, il riso e l’oro nero convivono senza problemi: poi arriva il pomeriggio del 28 febbraio. Su “Repubblica”, il giorno seguente, l’inviato Massimo Sartoriello racconta: “Il pomeriggio di panico per gli abitanti di Trecate e Romentino, a una manciata di chilometri da Milano, e l’allarme in Piemonte e Lombardia, è cominciato alle sedici e trenta, quando si è spaccata una tubazione del pozzo di trivellazione del deposito 24 dell’Agip di Trecate”. La dinamica dell’incidente viene descritta, di lì a pochi giorni, da Vittorio Ravizza su “Tuttoscienze”: quando lo scalpello – cioè la punta adibita alla perforazione del terreno – è arrivato a quota 5720 metri, “qualcosa nelle viscere della terra si è spezzato e un violento getto di greggio misto ad acqua, detriti, metano, idrogeno solforato ha oscurato il cielo di Trecate”. Improvvisamente, continua Ravizza, “c’è stato un brusco cambiamento di pressione e mentre si stava riportando in superficie la trivella è avvenuta l’eruzione”. Risultato: 12.000 metri cubi di petrolio grezzo si riversano per 36 ore su strade, case, campagne.

Per capire cosa sia successo agli abitanti dell’area interessata, abbiamo intervistato diversi testimoni dell’epoca. A sedici anni di distanza, l’impressione è ancora forte e i ricordi di oggi sono vivi come i resoconti giornalistici dell’epoca. All’inizio, l’allarme riguarda principalmente due paesi: Trecate e Romentino. Matteo Caccia, che oggi conduce il programma “Vendo tutto” su Radio 24, ricorda bene quel giorno: “Avevo 19 anni, ero a casa a studiare e ho sentito sirene ed elicotteri. La gente è scesa in strada perché si diceva: ‘È saltato in aria un pozzo’. Ma il vento tirava in direzione opposta al mio paese, quindi il petrolio se ne andò tutto verso Trecate”. Romentino viene risparmiata, e la pioggia  cade sul paese vicino. Danilo Favino, al momento dello scoppio, si trova a Milano: “Sono stato avvisato da mia moglie, che mi consigliava di non rientrare in quanto erano state chiuse tutte le strade. Con notevole difficoltà e passando per strade di campagna, dopo qualche ora, sono giunto a Trecate: pioveva acqua marrone”. Per tre o quattro giorni, continua Favino, “si sentiva un forte sibilo, amplificato nelle ore notturne della pressione che fuoriusciva dal pozzo – acqua e petrolio – che ha reso tutte le strade scivolose e di colore nocciola”.

Anche Riccardo Fortina ricorda bene quei giorni. Docente presso il Dipartimento di scienze zootecniche dell’Università di Torino e presidente del WWF Piemonte, Fortina è di origini novaresi: “I miei sono di Bellinzago e Oleggio, poco distanti da Trecate. Ho passato estati e vacanze da quelle parti, e conosco bene i posti”. Raggiunto dalla notizia dell’esplosione, il professore raggiunge Trecate: “Ricordo solo un grande movimento di uomini e mezzi, luci, ma da lontano (non ci si poteva avvicinare), un’atmosfera scura e surreale. Ai bar molte voci  e imprecazioni di agricoltori e risicoltori, la paura che l’esplosione non si fermasse, la paura di bere l’acqua. Qualcuno accusava il Parco del Ticino di essersi veduto in cambio delle trivellazioni, ma non saprei dire quanto sia vero. Insomma, sensazioni normali in una situazione anormale”. L’allarme resta alto fino a tarda notte, ma fortunatamente la concentrazione di acido solfidrico nell’aria resta lontana dalla soglia critica. Poi, con l’intervento di una task force giunta dal Texas (quello vero), scompare anche la pioggia: quello che resta, scriveva Federica Cavadini sul “Corriere della Sera”, è un “paesaggio lunare, in questa terra di risaie: la campagna è nera, sembra imbevuta nell’inchiostro, vicino al pozzo maledetto c’è ancora quel rumore assordante dei jet in decollo e c’è anche la stessa puzza di carburante”.

Dopo il disastro. A poche ore dall’incidente – di incidente si è trattato per la procura di Novara, che nel settembre 1995 ha chiesto di archiviare il caso senza ravvisare responsabilità penali – le preoccupazioni erano molte. E un airone annerito di petrolio, ricoverato dal WWF nel centro di Vanzago, è solo un simbolo dei rischi a cui è andata incontro l’area. Un evento di tale portata, infatti, può moltiplicare gli agenti inquinanti nell’aria, e l’odore stesso del greggio è causa di malori; il deposito del petrolio sulla terra, inoltre, può danneggiare seriamente le coltivazioni e le falde acquifere; critica, infine, sarà la situazione della fauna. Aria, suolo, acqua e animali sono i grandi settori su cui concentrare gli sforzi per la bonifica del territorio: nel frattempo, il Comune ha vietato coltivazione e consumo di frutta e ortaggi, due (dei tanti) accorgimenti adottati per salvaguardare la salute della popolazione. Le regole sono state rispettate? Carlo Migliavacca, che al tempo era consigliere comunale a Novara, ha i suoi dubbi: “Certo il disastro c’è stato, così come la bonifica dei terreni agricoli. Gli agricoltori hanno incassato belle somme e dovevano lasciare incolti i terreni ma, come tutte le cose italiane, le coltivazioni sono continuate”. A distanza di anni, è possibile scherzarci su: “Toh guarda – avevo pensato – il riso più bello, chiaramente a vista, cresce proprio in quei terreni inquinati dal petrolio…”.

Fatte le dovute proporzioni, anche nel novarese – come nel Golfo del Messico – la situazione sembrava irrecuperabile. Ma è stato davvero così? Per capirlo abbiamo parlato con Giuseppe Magnaghi, all’epoca sindaco di Trecate e (caso vuole) ingegnere chimico. “Prima di tutto si è intervenuti controllando l’atmosfera intorno al pozzo, per verificare che non vi fossero miscele esplosive in atto. Ci si è poi adoperati per evitare che questa marea si propagasse alla rete fognaria e alle reti di derivazione dei campi: utilizzando pompe galleggianti, si è riusciti a fare in modo che il depuratore di Cerano non andasse in tilt”. Tamponata l’emergenza, è partita la bonifica: “È durata dal 28 febbraio a metà giugno, utilizzando diluenti e assorbenti. Poi si è notato che il petrolio depositato nei terreni veniva degradato naturalmente dai microrganismi: dunque non si è scorticato granché, fatta eccezione – ovviamente – per la zona intorno al pozzo. A distanza di un mese le concentrazioni di idrocarburi erano calate notevolmente: alla fine di maggio avevamo già i terreni completamente disponibili”. Per quanto riguarda i terreni adiacenti al deposito 24, invece, “si è provveduto all’assorbimento del greggio galleggiante, e alla rimozione del terreno. A questo punto si sono fatte delle montagne, le cosiddette ‘biopile’, che – purificate per mezzo di un procedimento termico –  sono state riposizionate sui campi”.

Secondo il sindaco, “non ci sono stati danni irreversibili”. Un’opinione condivisa anche da Danilo Favino: “Sono state ripulite tutte le case interessate, e il terreno inquinato è stato rimosso. L’intervento è durato parecchi mesi: non credo che l’ecosistema abbia subito danni irreparabili, il pozzo è stato chiuso ed attualmente, per quanto riguarda gli altri pozzi, non ci sono problemi”. A soffrire più di tutti, ci spiega Riccardo Fortina, è stata certo la fauna: “Ricordo campi e risaie sporche, zone inaccessibili, animali morti, puzza. Con la bonifica i suoli sono stati stravolti, e questo per animali come gli anfibi significa spesso la morte”. In breve tempo, però, Trecate sembra aver ritrovato il suo equilibrio: “Per tornare alla normalità, con tanto di ripresa della produzione del riso – spiega Magnaghi – ci sono voluti tre anni”. Responsabile della bonifica è stata l’Agip, che ha appaltato il lavoro ad alcune imprese e ha dispiegato sul territorio 500 persone: “Noi come Comune – continua l’ex sindaco – abbiamo controllato quotidianamente l’avanzamento dei lavori, attraverso un programma giornaliero che veniva verificato con i tecnici dell’Agip”. Dati certi non ce ne sono, ma secondo Magnaghi – tra danni riconosciuti a cittadini e agricoltori, e spese di bonifica – “all’Agip l’incidente è costato 250 miliardi di lire; la sola bonifica dei beni comunali è costata 2,5 miliardi”.

Un lezione per il Golfo del Messico? Il novarese non è il Golfo del Messico. Apparentemente, la tragedia che ha colpito la Louisiana – e le difficoltà che sta incontrando la British Petroleum nel mettere una pezza alla fuoriuscita di greggio – è di una vastità (e complessità) difficilmente rapportabile al caso di Trecate. Eppure, i punti di contatto non mancano: Magnaghi, per dirne una, racconta che anche nel 1994 i tecnici texani “pensavano di incapsulare la fuoriuscita di greggio come si sta facendo nel Golfo del Messico: ma a Trecate non era possibile, con un salto di pressione di 800 atmosfere e una profondità di oltre 5000 m qualsiasi capsula sarebbe stata distrutta”. Un problema, si legge nelle cronache, a cui sta andando incontro anche la BP con la Deepwater Horizon. Secondo Riccardo Fortina, le analogie tra i due casi sono di carattere teorico: “Credo che Trecate abbia sperimentato tecnologie di estrazione che rientrano già tra quelle necessarie per i giacimenti ‘difficili’. Gli errori fatti a Trecate e in Messico saranno sicuramente di diversa origine, ma alla base c’è sempre un coefficiente di probabilità di errore il cui limite inferiore lo deve decidere l’uomo. Se il limite inferiore viene alzato per guadagnare di più, aumentano anche i rischi”.

Che si parli di Messico o di pianura padana, continua Fortina, il discorso non cambia. “Oggi le estrazioni sono così complicate, difficili, lontane e costose – i giacimenti ‘buoni e facili’ sono agli sgoccioli – che il rischio di errore sta aumentando in maniera pericolosissima, nonostante le migliori tecnologie”. Per il professore, non c’è da stare allegri: “La vedo male in futuro. Nell’inevitabile passaggio dagli idrocarburi ad altre fonti c’è il momento di maggior rischio. Quando si inizia ad abbandonare il vecchio per il nuovo, ci sono sempre problemi. E credo che ciò accadrà, nel settore energetico, tra non molto”. Sul breve termine, però, in America c’è una tragedia da fermare. A corto di idee, lunedì la BP ha aperto un sito web per raccogliere possibili soluzioni da tutto il mondo. Se il caso di Trecate può insegnare qualcosa all’America, è che nulla è irreparabile e la collaborazione quotidiana tra le autorità e le compagnie petrolifere è la strada maestra per risolvere la crisi nel minor tempo possibile. Barack Obama ha promesso che seguirà costantemente l’evolvere della situazione e la successiva bonifica; la British Petroleum ha garantito che pagherà tutti i danni, e farà del suo meglio salvare le terre aggredite dal petrolio. Nel novarese, questo schema ha funzionato bene. La speranza è che anche l’America  possa presto uscire dalla morsa del greggio, più pulita di prima.