Pianificare la vittoria in Afghanistan: i 9 punti per una strategia di successo

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Pianificare la vittoria in Afghanistan: i 9 punti per una strategia di successo

21 Febbraio 2009

Il presidente Obama ha ribadito più volte che l’America deve vincere in Afghanistan. Ha assolutamente ragione e merita tutto il nostro supporto in questa impresa.

L’Afghanistan è un paese molto complicato, per diversi aspetti ancor più di quanto non lo fosse l’Iraq. Persino con una buona strategia e sufficienti risorse, ottenere un successo qui richiederà quasi certamente tempi molto più lunghi. Ma come ha affermato un uomo straordinario due anni fa, dire difficile non equivale a dire senza speranza.

I punti chiave per elaborare un giusto approccio sono racchiusi in nove principi fondamentali.

1.  Comprendere perché ci troviamo lì.
L’Afghanistan ad oggi non è più un santuario di al-Qaeda, ma probabilmente lo diventerebbe di nuovo se noi lo abbandonassimo. Il Mullah Omar, leader del governo dei Talebani che abbiamo destituito nel 2001, è vivo e vegeto in Pakistan. E mantiene contatti con Osama bin Laden, Ayman al-Zawahiri, e gli altri personaggi chiave di al-Qaeda, che hanno ugualmente le loro basi in Pakistan (sebbene in un’altra area). Il Mullah Omar sostiene i combattenti talebani nell’Afghanistan meridionale dai suoi rifugi in Pakistan, mentre al-Qaeda e i suoi affiliati danno il proprio sostegno ai ribelli nell’Afghanistan orientale. Permettere che il paese vada incontro alla disfatta significa concedere a questi temibili nemici degli Stati Uniti di riguadagnare quella libertà di cui godevano prima dell’11 settembre.

Il Pakistan da solo rappresenta poi un’altra ragione che rende l’Afghanistan di vitale importanza per l’America. Si tratta di un paese con 170 milioni di abitanti, con armi nucleari, e numerosi gruppi di terroristi. Fino a quando l’Afghanistan sarà una nazione instabile, il Pakistan non sarà in grado di riportare l’ordine all’interno delle proprie aree tribali, dove ancora forte è la presenza di rifugi per i terroristi.  Sarà inoltre distolto dall’affrontare i problemi fondamentali del radicalismo islamico, che minacciano la sua stessa sopravvivenza come stato. Inoltre, l’instabilità afghana rende gli Stati Uniti logisticamente dipendenti dal Pakistan – non c’è modo di sostituire completamente la via di terra da Karachi con un’altra via attraverso l’Asia Centrale. A volte questa dipendenza riduce le nostre capacità di influenza su Islamabad per altre questioni della massima importanza, quali ad esempio la affermazione del diritto civile in Pakistan e il blocco del sostegno ai gruppi terroristici, come quello responsabile dell’attacco di Bombay.

2. Avere ben chiaro quali sono i nostri obiettivi.
Il successo in Afghanistan non richiede la creazione di un paradiso in uno degli stati più poveri della terra, ma non possiamo neppure sminuire la vittoria.  Impedire che l’Afghanistan possa tornare ad essere un rifugio sicuro per i terroristi, aiutando il Pakistan a risolvere i suoi problemi sul terrorismo, e liberandoci dalla nostra dipendenza da questo paese, richiederà la costruzione di uno stato afghano con un governo rappresentativo. Da questo punto di vista, l’Afghanistan ha una tradizione più antica rispetto all’Iraq. Ha conquistato l’indipendenza sin dal 1747, e ha avuto un’attiva monarchia costituzionale e parlamentare nella metà del ventesimo secolo. Le forze centrifughe nel paese sono sempre state potenti ed hanno indebolito le prospettive per un forte governo centralizzato a Kabul, sebbene il paese non sia né ingovernabile né artificiale. Tuttavia, in questo preciso momento storico, non può di certo essere stabile senza un sistema rappresentativo. Il suo carattere multietnico e decenni di guerra civile fanno sì che ogni tentativo di imporre una forte leadership o dividere il paese in feudi effettivamente indipendenti e governati da dittatori, porterebbe ad una situazione di violenze senza fine.

3.  Comprendere i nostri nemici e i nostri amici.
Non c’è nulla di paragonabile ai Talebani oggigiorno. Molti gruppi differenti, con leader e obiettivi diversi, si definiscono Talebani, e in numero ancora maggiore vengono chiamati Talebani dai loro nemici. Oltre ai talebani del Mullah Omar, con base in Pakistan, e alle forze  indigene di talebani in Afghanistan, esiste un gruppo di talebani pakistani controllato da Baitullah Mensud (si pensa che tale gruppo sia il responsabile dell’assassinio di Benazir Bhutto). Entrambi sono collegati ad al-Qaeda, ed entrambi sono pericolosi e determinati. Tuttavia, in altre aree i gruppi talebani sono costituiti soprattutto da uomini di tribù insoddisfatti, che ritengono più conveniente ricevere aiuto dai talebani piuttosto che da altre fonti.

In termini generali, ogni gruppo che si definisce talebano si identifica come ostile al governo di Kabul, agli Stati Uniti e ai loro alleati. Il nostro lavoro è quello di comprendere quali di questi gruppi siano realmente pericolosi, quali rappresentino un ostacolo insormontabile per i nostri obiettivi in Afghanistan – e quali possano essere sciolti o persuasi a riunirsi alla politica afghana. Non possiamo combattere contro tutti, così come non possiamo negoziare con ciascuno di loro. Abbandonare il termine talebani e riferirsi invece a gruppi specifici rappresenterebbe un buon metodo per iniziare a capire quali siano quelli che causano realmente dei problemi.

Riconoscere i limiti dell’attuale governo è il giusto passo successivo da compiere. Bisogna ammettere che il governo è inefficace e profondamente corrotto. I governatori provinciali e i capi delle regioni non sono stati eletti, bensì nominati dal presidente Hamid Karzai, con un occhio spesso rivolto all’intento di marginalizzare i suoi potenti rivali e consolidare il proprio potere personale. La popolarità di Karzai sta diminuendo, e il rinvio delle elezioni presidenziali da maggio ad agosto permette ai suoi avversari di ritrarlo come un leader illegittimo. E’ possibile che, anche qualora Karzai vinca le elezioni di agosto, molti afghani continueranno a non considerarlo legittimo.

Nonostante ciò, gli Stati Uniti non possono voltare le spalle al governo centrale e ricercare soluzioni solamente a livello locale. In primo luogo perché importanti leader locali sono delegati di Karzai. In secondo luogo perché costruire soluzioni circoscritte, senza collegamenti con il governo centrale, condurrebbe verso nuove dittature dei signori della guerra e verso una rinnovata instabilità. La chiave, dunque, sta nello sviluppare soluzioni che siano connesse al governo centrale, ma non necessariamente del tutto sotto il suo controllo.

I governi locali – possibilmente a livello dei singoli villaggi –  dovranno giocare un ruolo importante nel selezionare individui che, una volta raggiunto un certo grado di sicurezza, si impegnino a mantenerla. I villaggi afghani sono spesso indirizzati da corpi rappresentativi, o almeno dagli anziani del posto, che sono in grado di identificare i bisogni e le priorità, bilanciando al contempo le preoccupazioni delle tribù. I governi locali e provinciali, collegati a Kabul, dovranno fornire armi e un corrispettivo alle forze di sicurezza locale, acquisendo di conseguenza una sorta di parziale controllo su di loro.

Un approccio del genere sarà probabilmente richiesto anche sul fronte economico – gruppi e leader locali, inizialmente supportati in alcuni casi da fondi del Commander’s Emergency Response Program degli Stati Uniti, potranno dare il via a progetti economici, mettendoli però in collegamento con i rappresentanti del governo, per ottenere un finanziamento a lungo termine e l’integrazione nel sistema economico regionale e nazionale. Da ultimo dobbiamo lavorare duro per sviluppare soluzioni locali adeguate ai problemi locali, mantenendo sempre presente l’obiettivo di integrare tali soluzioni in un sistema di supporto e controllo centrale non rigido ma reale. 

4. Impegnarsi nello sforzo
La continua riluttanza del governo statunitense ad impegnarsi per il successo dei suoi sforzi  a lungo termine in Afghanistan (e in Iraq) rappresenta un serio ostacolo per i progressi da compiere. La leadership pakistana è convinta che l’America abbandonerà i suoi sforzi in Asia meridionale ancor prima del previsto, e proprio tale convinzione alimenta la determinazione del Pakistan a mantenere il sostegno (e quindi il controllo) dei gruppi talebani afghani, che hanno base nel suo territorio. Tutto ciò contribuisce anche all’instabilità all’interno del paese, poiché i leader pakistani esitano nell’impegnarsi a combattere contro i loro nemici interni, nutrendo ancora forti dubbi sulla nostra determinazione a fare la nostra parte.

A livello locale, all’interno dell’Afghanistan, tutti coloro che non sono sicuri che le forze della coalizione rimarranno al loro fianco per sostenerli qualora decidano di opporsi ai terroristi, probabilmente non vorranno rischiare ritorsioni per essersi impegnati al nostro fianco. Quando le forze statunitensi si sono trasferite nelle roccaforti ribelli in Iraq nel 2007, la prima domanda che si sono sentite rivolgere è stata: “Avete intenzione di rimanere questa volta?” Alla risposta affermativa (poi confermata dal fatto che siamo realmente rimasti e che stiamo vivendo in mezzo a loro), l’opposizione locale contro gli insorti ha acquistato grande vigore. Il popolo dell’Afghanistan ha bisogno di una rassicurazione dello stesso tipo. Fino a quando la convinzione generale è che gli Stati Uniti rimarranno a combattere solo finché l’insorgenza venga sconfitta, i dubbi riguardo il nostro impegno continueranno ad alimentare la ribellione. Se abbiamo intenzione di portare avanti questa guerra, come è nel nostro stesso interesse, dobbiamo chiarire che faremo tutto ciò che è necessario per ottenere la vittoria.

La storia non è certo con noi nel sostenere i nostri sforzi in tal senso. Gli Islamisti indicano tra gli esempi la nostra ritirata in seguito al  bombardamento della caserma della Marina in Libano nel 1983, l’incidente “Blackhawk Down” del 1993, il nostro abbandono dell’Afghanistan dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica nel 1989, e l’aver lasciato gli sciiti e i curdi iracheni nelle mani di Saddam Hussein nel 1991-1992. Alla fine del 2006 i nostri nemici in Iraq stavano già cantando vittoria, convinti che si sarebbe ripetuta una storia già vista. Ora invece si trovano a porsi un altro tipo di domanda: il “surge” è stata un momento isolato nella politica degli Stati Uniti o rappresenta forse un nuovo schema d’azione?

I nostri alleati si pongono la stessa domanda. Noi stiamo chiedendo loro di mettere in gioco le proprie vite, a sostegno di obiettivi condivisi, e di conseguenza hanno bisogno di sapere che possono fare affidamento su di noi. Molto dipende dai risultati che otterremo in Afghanistan, ancor più che dagli interessi che abbiamo in quella terra. La sicurezza americana potrà godere di un enorme beneficio qualora riuscissimo a mutare la percezione globale secondo cui gli Stati Uniti non hanno il fegato di portare a termine le azioni che decidono di intraprendere.
 

5. Imparare le giuste lezioni, adattandole alle situazioni.
Non possiamo non considerare la nostra lunga e dolorosa esperienza in Iraq, ma dobbiamo riconoscere le differenze tra quel paese e l’Afghanistan.

Forse la lezione più importante dell’Iraq, che possiamo applicare anche all’Afghanistan, è la seguente: è impossibile condurre operazioni di anti-terrorismo efficaci ( come ad esempio colpire network dei terroristi con attacchi mirati ai luoghi chiave della leadership) in uno stato così fragile, senza attuare adeguate operazioni per contenere la ribellione (come ad esempio proteggere la popolazione ed utilizzare programmi politici ed economici per garantire un sostegno al governo e una risposta idonea ai ribelli e ai terroristi). Non avremo mai uno scenario migliore di quello rappresentato dall’Iraq nel 2006 per testare i limiti del nostro modello anti-terrorismo. Le squadre delle Forze Speciali statunitensi avevano la massima libertà di azione per agire contro al-Qaeda in Iraq, sostenute da circa 150.000 truppe regolari americane, da centinaia di migliaia di unità dell’esercito e delle forze di polizia irachene, e dalla potenza aerea. Abbiamo ucciso decine di leader di primo piano tra i terroristi, compreso il capo di al-Qaeda in Iraq, Abu Musab al Zarqawi, nel giugno 2006. Ma la forza, la violenza ed il controllo esercitato dai terroristi non hanno fatto altro che crescere proprio durante quell’anno. Solo nel momento in cui le unità presenti sul terreno hanno iniziato ad applicare un nuovo approccio alle loro azioni – un approccio di contro insorgenza -, ricevendo nuovi aiuti e rinforzi, siamo riusciti a sconfiggere al-Qaeda in Iraq (anche senza uccidere i suoi nuovi leader).

In Afghanistan, non abbiamo nulla di simile alla libertà di movimento che avevamo in Iraq nel 2006, e nulla che sia paragonabile al livello delle forze impiegate. Inoltre, è ormai da sette anni che prendiamo di mira i punti chiave della leadership dei network terroristici in Afghanistan e in Pakistan, senza essere ancora riusciti a sconfiggere quei gruppi. In mancanza di un’apposita strategia di contro insorgenza e di costruzione della nazione, in grado di portare la popolazione a respingere i terroristi, ogni azione perde la sua efficacia: uccidere i cattivi non servirà a sconfiggere i numerosi network terroristici, ben organizzati e determinati.

Per alcuni periodi si è registrato un entusiasmo crescente attorno all’idea di creare “risvegli” in Afghanistan simili al “movimento del risveglio” di Anbar, che ha tanto contribuito  a dare una svolta all’Iraq nel 2007. Concettualmente, questo entusiasmo ha un senso. Come già accennato, il successo richiederà lo sviluppo di soluzioni locali che siano integrate in un certo modo con il governo centrale – l’interpretazione più astratta del fenomeno del “risveglio” in Iraq.

Ma dobbiamo fare molta attenzione quando tentiamo di applicare le “lezioni” dell’Iraq che sono invece caratterizzate da una spiccata specificità. Da una parte, quello che è successo in Iraq non rappresenta un fenomeno isolato. Il rifiuto di al-Qaeda da parte degli arabi-sunniti e la decisione di passare dalla parte della coalizione deve essere considerato come l’insieme di una miriade di sviluppi a livello locale, piuttosto che come un movimento coordinato. Di certo coordinata è stata invece la risposta ed il supporto dato dalla coalizione a tali sviluppi – abbiamo infatti creato il termine “Sons of Iraq” e trattato tutti i suoi membri come fossero parte di un gruppo coeso e impegnato in obiettivi burocratici e di raccolta fondi – ma ogni gruppo è rimasto indipendente. I “Sons of Iraq” non hanno mai sviluppato un’identità collettiva, ed i movimenti locali hanno trasformato i propri contesti politici piuttosto che procedere ad un’evoluzione verso un movimento di ampiezza nazionale.

La stessa situazione si verificherà in Afghanistan. I gruppi locali di Konar non si identificheranno con quelli di Helmand, né è necessario che lo facciano. Non esiste un programma “Sons of Afghanistan” che possa essere definito a livello centrale e pilotato durante la sua formazione. Così come in Iraq, dobbiamo permettere ed incoraggiare i movimenti locali a crescere organicamente -in conformità con le condizioni interne e con le tradizioni presenti, ma anche con un intervento da parte delle forze afghane e della coalizione, in grado di comprendere le peculiarità di ciascuna area. E’ sottinteso che ciascuno sforzo per sviluppare forze di sicurezza locali in luoghi in cui siano ancora presenti i ribelli sarà destinato al fallimento, sia esponendo gli abitanti ad un pericoloso castigo sia aiutando i ribelli a cooptare tra le proprie fila nuovi combattenti.
 

6. Considerare il terreno umano.
I Pashtun non sono arabi. Hanno tradizioni differenti, altre strutture tribali, diversi modi di risolvere le divergenze. Una delle maggiori differenze (e tra quelle meno evidenziate) è che gli iracheni combattono nelle loro città e villaggi, mentre i Pashtun, nel loro insieme, non lo fanno.

Saddam Hussein ha pianificato la sua difesa contro l’attacco degli Stati Uniti con l’intenzione di condurci in un vortice di lotte all’interno delle città, convinto che la sola idea ci avrebbe intimorito. Gli insorti iracheni si sono insediati nei villaggi e nelle città, mescolandosi alla popolazione. Lo stesso hanno fatto anche i gruppi esterni di terroristi.

Le forze della coalizione hanno combattuto nei villaggi e le città irachene, causando a volte danni spaventosi alle città stesse e alle popolazioni locali. Ad esempio, abbiamo devastato Fallujah e Ramadi. Ma le lamentele degli abitanti non si sono concentrate sui danni collaterali. Considerata la scala di distruzione, le rimostranze sono state davvero moderate. Nel 2007, le truppe vittoriose della coalizione, che avevano combattuto nei rifugi dei terroristi e dei ribelli a Baghdad, erano più popolari alla fine della battaglia piuttosto che all’inizio. Gli iracheni in genere riconoscono che le loro guerre si combattono all’interno delle loro stesse città, per quanto questo sia un pensiero terribile, e così hanno acquisito un alto grado di tolleranza rispetto ai danni collaterali e addirittura rispetto alla presenza di forze straniere nelle loro aree urbane e nei loro villaggi. Ciò che generalmente rappresenta il loro principale punto di interesse è chi sia destinato a vincere.

I Pashtun non agiscono in questo modo. I sovietici hanno invaso l’Afghanistan alla fine del 1979 e hanno rapidamente occupato tutte le principali aree urbane. La maggior parte dei ribelli non ha contestato quella occupazione. Al contrario si è concentrata nell’interrompere le comunicazioni tra le città, nel tendere imboscate alle truppe sovietiche che si allontanavano dalle zone urbane e dai villaggi, e nell’attaccare avamposti sovietici isolati. Dal canto loro, i sovietici non sapevano come rispondere – il contesto non era tale da permettere una riflessione su un’insorgenza di tipo rurale. In fondo avevano combattuto la seconda guerra mondiale città per città, ed erano riusciti a sopprimere le ribellioni nei loro satelliti dell’Europa orientale combattendo da una capitale all’altra. Hanno dunque tentato di sottomettere i Pashtun bombardando in modo feroce ed indiscriminato i villaggi afghani, provocando 5 milioni di rifugiati e alimentando la resistenza piuttosto che sconfiggerla.

La situazione attuale è molto simile. I maggiori centri urbani non sono rifugi degli insorti, e la maggior parte degli attacchi da parte dei ribelli ha luogo non solo al di fuori della città, ma anche all’esterno dei villaggi. Le truppe americane abituate a stabilire le proprie posizioni all’interno delle città irachene potrebbero ritenere che le stesse procedure in Afghanistan esasperino la popolazione invece di rassicurarla. Questo non significa che il problema stia nella nostra “impronta” complessiva sull’Afghanistan, ma che piuttosto dovremmo ripensare a dove mettere i piedi. Inoltre dobbiamo tener presente che la tolleranza degli afghani riguardo agli attacchi nelle loro città e villaggi è di gran lunga inferiore rispetto a quella degli iracheni, motivo per il quale le lamentele per i danni collaterali sono ben più imponenti rispetto a quelle riscontrate in Iraq, anche laddove i danni riportati siano di minore entità.

Comprendere questo principio è di vitale importanza, poiché qualora interpretassimo erroneamente la natura del problema dell’“impronta” potremmo giungere ad una conclusione sbagliata: potremmo infatti convincerci che il successo richiede minori forze piuttosto che un aumento di uomini – o , come stanno suggerendo sempre più leader di rilievo, che il problema è rappresentato proprio dalla nostra presenza. In effetti, per risolvere le problematiche presenti in Afghanistan, dobbiamo acquisire una profonda conoscenza delle dinamiche interne in numerose aree differenti. Nell’attuale ambiente della sicurezza, solamente gli americani ed i loro alleati militari possono cogliere queste dinamiche, giungendo a un tale livello di conoscenza solamente grazie al fatto di vivere tra la gente, in un modo reciprocamente accettabile sia per le nostre forze che per gli afghani. Ritirarsi nelle basi potrebbe ridurre il risentimento locale nei nostri confronti, ma ci priverebbe anche di ogni possibilità di interagire con gli afghani e con i loro leader a quel livello necessario per ottenere il successo. La svolta in Iraq ha richiesto di trovare il modo adeguato di dispiegare le forze americane tra la popolazione irachena. Il successo in Afghanistan richiederà di trovare la via giusta per quel paese, una via che sarà sicuramente differente rispetto a quella intrapresa in Iraq. 

7. Comprendere cosa dobbiamo fare, cosa possiamo fare e cosa non possiamo fare.
L’esercito nazionale afghano è composto da circa 70.000 soldati (sulla carta). Questo numero aumenterà gradualmente fino a 134.000 unità – sebbene si tratti di una cifra arbitraria, basata su ipotesi relative a ciò che il quinto paese più povero al mondo può permettersi di pagare per un esercito che è senza dubbio troppo piccolo per stabilire e mantenere la sicurezza. La polizia nazionale afghana è inefficace, se non addirittura una parte del problema. L’Afghanistan inoltre ha un’estensione maggiore rispetto all’Iraq, il suo terreno è ben più impervio, e la sua popolazione più numerosa. Le forze di sicurezza irachene che hanno sconfitto la rivolta (con il nostro aiuto) nel 2007 e nel 2008 hanno raggiunto un numero di oltre 500.000 unità. Semplicemente non c’è alcuna possibilità che le forze di sicurezza afghane possano sconfiggere l’insorgenza da sole, con o senza un gran numero di consiglieri della coalizione.

Fermare la rivolta dovrà essere un vero e proprio lavoro di squadra. Le unità della coalizione dovranno agire insieme agli uomini dell’esercito afghano per avere la meglio in aree critiche, per poi collaborare con i leader locali alla ricerca di soluzioni per la sicurezza interna, supportate da un minor numero di truppe residue americane ed afghane, nel momento in cui l’azione più imponente si sposta verso altre aree da liberare.

In generale sarebbe meglio per gli afghani assumere il comando negli spostamenti all’interno o tra le varie città afghane, ma in realtà questo non è sempre auspicabile come si potrebbe pensare. In molte regioni, gli abitanti dei villaggi si concentrano in alta percentuale. Gli iracheni erano abituati a viaggiare attraverso il loro paese, a mantenere legami attivi e ad effettuare visite frequenti ai propri parenti in varie regioni, ed erano sempre pronti a riconoscere l’esercito iracheno come il proprio esercito, anche quando le sue unità provenivano da altre parti del paese. Per molti afghani che vivono nelle zone rurali la situazione è ben diversa, anche perché in decenni di combattimenti i ribelli hanno costantemente lavorato per interrompere ogni possibilità di comunicazione. In alcune aree, tutte le forze esterne -persino le stesse forze afghane- vengono percepite semplicemente come degli stranieri.

Ad oggi possiamo osservare chiaramente tale fenomeno in Pakistan, quando i soldati pakistani (in gran parte Panjabi) si spostano nelle aree Pashtun e vengono attaccati come stranieri. Creare una situazione del genere in Afghanistan non è assolutamente nei nostri interessi. Dobbiamo inoltre ricordare un’importante lezione che deriva dai nostri sforzi di trasferire in modo prematuro le responsabilità della sicurezza in Iraq nel 2005 e nel 2006: non avrebbe molta importanza se la popolazione dovesse nutrire un forte risentimento nei nostri confronti; sarebbe invece molto grave se tale risentimento fosse rivolto verso le proprie forze di sicurezza locali.

Alcune operazioni contro i ribelli sono condotte meglio dalle forze esterne semplicemente perché lo scontento che generano andrà via insieme a loro, piuttosto che rimanere impresso nel governo locale.   

8. Avere un buon piano.
Aggiungere nuove truppe ad una strategia fallimentare raramente funziona. Gli attuali leader politici e militari lo riconoscono, ed è questo il motivo per cui CENTCOM, Joint Staff e Casa Bianca stanno elaborando delle revisioni per sviluppare una nuova strategia in Afghanistan. Il comandante sul campo, il generale David McKiernan, deve affrontare grandi difficoltà con cui i generali Petraeus e Odierno non si sono scontrati in Iraq nel 2007.

Sviluppare un piano dettagliato per la campagna da porre in atto richiede un ampio staff militare. Anche per coordinare l’uso della forza con i progetti politici, economici e sociali è necessario il lavoro di un’ottima e numerosa squadra, sia in campo militare che civile. In Iraq nel 2007, il generale Petraeus poteva contare su un ampio staff (Multinational Force-Iraq), oltre che su uno straordinario partner civile come l’ambasciatore Ryan Crocker, che ha guidato la più grande ambasciata del mondo, con il potere di coordinare la maggior parte delle azioni non-militari in Iraq. Petraeus ha potuto godere anche del sostegno del LT.Gen. Raymond Odierno e delle numerose ed eccellenti unità dei III Corps. Odierno ed i suoi uomini hanno compiuto la maggior parte del lavoro sviluppando i piani militari per sconfiggere gli insorti, potendo contare su truppe di rilievo e su ben 22 squadre di combattimento. Ogni elemento di quella struttura militare era necessario per comprendere il problema e per escogitare piani atti a porvi una soluzione, perfettamente integrati ad ogni livello.

Il generale McKiernan non dispone di risorse di quel genere. Il suo staff è troppo piccolo ed è un miscuglio di ufficiali statunitensi ed alleati, la cui funzione principale, al momento della formazione della squadra, era il coordinamento di uno sforzo alleato di ricostruzione. Il numero di alleati di gran lunga superiore in Afghanistan, ed il fatto che la NATO abbia preso il controllo delle operazioni nel 2006, ha imposto a McKiernan e ai suoi uomini un enorme fardello, che Petraeus non ha dovuto di certo sostenere. Inoltre non esiste un quartier generale d’armata in Afghanistan – nulla che si possa paragonare ai III Corps di Odierno e allo staff che ha di fatto sviluppato il piano di guerra in Iraq. Esistono cinque quartier generali subordinati (corpi regionali), ma alcuni hanno poche truppe e solamente uno dispone delle risorse che venivano fornite a quelli iracheni. Stando ai piani attuali, entro la fine dell’anno sul campo dovrebbero essere dispiegate sei nuove squadre statunitensi. La missione USA in Afghanistan non ha nulla di equivalente all’autorità posseduta dall’ambasciatore Crocker; al contrario, la proliferazione di alleati e degli sforzi sottoforma di aiuti internazionali ha frustrato ogni tentativo di creare un piano unitario per una campagna militare e civile coerente.

La situazione in Afghanistan richiede un aumento significativo del personale a disposizione di McKiernan: l’aggiunta di un quartier generale d’armata sotto la sua direzione ed almeno un quartiere di divisione nel sud del paese. E’ inoltre necessario un corpo che possa coordinare gli sforzi internazionali ed accordarli ai piani militari, sia attraverso la missione statunitense in Afghanistan sia attraverso l’inviato speciale delle Nazioni Unite. Senza un aumento dei quartier generali e delle capacità di pianificazione, anche il miglior lavoro possibile condotto dai nostri comandanti si rivelerebbe in grado di risolvere il problema solo in maniera parziale. Le soluzioni che emergono probabilmente non si dimostreranno ottimali.

Prima di concludere il mandato, l’amministrazione Bush ha deciso di inviare dei rinforzi in Afghanistan, e la nuova amministrazione ha sostenuto la scelta presa. Ed è bene che sia andata così – l’Afghanistan ha bisogno di un maggior numero di truppe. Ma finché non verrà sviluppato sul campo un piano minuzioso ed approfondito – con il contributo di tutti i comandanti militari, dei nostri alleati, e delle organizzazioni civili che aiuteranno ad eseguirlo – non sarà possibile stabilire quante ulteriori truppe sono necessarie, cosa dovrebbero esattamente fare, o di quali risorse avranno bisogno. E’ bene che lo sviluppo di un simile piano e la valutazione delle risorse necessarie diventino una urgente priorità – persino più urgente del fatto di inviare nuove truppe sul campo.

Sviluppare un piano coerente per l’intero paese richiede il coinvolgimento dei nostri numerosi alleati. A tal proposito è necessario, di volta in volta, che tutti quanti comprendano in modo unitario la situazione, il compito da eseguire e le sfide da affrontare. Quando l’Afghanistan è diventato una missione NATO, l’idea generale era che si trattasse innanzitutto di un esercizio di costruzione della nazione. Molti dei paesi alleati hanno impegnato le proprie truppe, senza però manifestare la volontà di impegnarsi in operazioni di lotta ai ribelli. Sebbene sia naturale lamentarsi delle restrizioni nazionali che impediscono ad alcune truppe alleate di lasciare le loro basi e di combattere, dobbiamo riconoscere che molti dei nostri alleati non hanno mai espresso la volontà di partecipare a questo tipo di guerra. Di conseguenza si sono mostrati riluttanti nel riconoscere che ora ci troviamo di fronte ad una vera e propria rivolta. L’amministrazione Obama ed il suo nuovo inviato appena nominato, l’ambasciatore Richard Holbrooke, hanno reali possibilità di impegnarsi in un’azione diplomatica costruttiva. Una loro priorità dovrebbe essere proprio quella di aiutare gli alleati ad accettare la realtà in Afghanistan, rendendo chiaro al tempo stesso che noi non ci aspettiamo da loro una partecipazione ad operazioni militari che non hanno mai intenzionalmente sottoscritto. Così come abbiamo fatto in Iraq, dovremmo accettare ogni contributo che i nostri alleati abbiano intenzione e possibilità di fornire, evitando però che tra tali contributi sorgano delle tensioni in grado di distorcere l’intero senso della battaglia. 

9. Dare la giusta priorità agli sforzi.
Sebbene la situazione in Afghanistan stia senza dubbio peggiorando, sarebbe un errore se come risposta quest’anno si sottraessero delle forze dal fronte iracheno. E soprattutto, come spiegato in precedenza, non siamo ancora riusciti a raggiungere in Afghanistan le condizioni necessarie a permettere il successo di un "surge". Inoltre, ci troviamo di fronte ad uno scenario che non è in grado di assorbire tanti rinforzi inviati in maniera troppo rapida. Il "surge" in Iraq ha portato il livello delle truppe statunitensi ad oltre 160.000 soldati – più o meno lo stesso numero di uomini che avevamo dispiegato nel paese alla fine del 2005. Al contrario, le forze di coalizione presenti in Afghanistan sono già ai loro massimi livelli. La base logistica che le supporta è davvero scarsa. In Iraq era possibile contare su una logistica e su una capacità di infrastrutture tale da permettere l’integrazione di cinque ulteriori squadre e di due battaglioni nello spazio di soli sei mesi. Data la mancanza di simili risorse, a questo punto sarà molto difficile raggiungere un risultato del genere in Afghanistan. 

Bisogna sottolineare che sarebbe un errore anche dal punto di vista degli interessi globali e della grande strategia degli Stati Uniti. Il netto miglioramento della situazione in Iraq ci ha già permesso di incrementare le nostre opzioni e la nostra flessibilità – diverse forze si stanno spostando quest’anno dal territorio iracheno a quello afghano senza mettere a rischio la nostra posizione in Iraq. Il generale Odierno ha evidenziato come il 2009 sia un anno cruciale per Baghdad, a cominciare dal successo delle elezioni provinciali irachene, appena svoltesi nel paese, e per finire con l’elezione di un nuovo governo centrale.

Mantenere la presenza americana in Iraq a sostegno delle evoluzioni in corso è di fondamentale importanza. Ogni pronostico suggerisce che, se riusciamo a mantenere una presenza del genere durante l’anno in corso, la necessità di mantenere costantemente forze statunitensi nel paese diminuirà in maniera significativa dopo il 2009. In altre parole, possiamo aumentare efficacemente le truppe in Afghanistan a partire dal 2010 senza compromettere il successo ottenuto in Iraq, e potremo permetterci di sostenere tali nuove forze nel contesto afghano dopo aver sviluppato strutture logistiche e di combattimento – e soprattutto, un adeguato piano strategico. Quindi, stabilire una importante e solida strategia significa impiegare il 2009 per fissare le condizioni necessarie ad effettuare le operazioni decisive in Afghanistan, assicurando al contempo in Iraq una stabilità tale da permettere una netta riduzione delle forze.

Il problema chiave che riguarda un approccio di questo tipo sta nel fatto che l’Afghanistan deve eleggere un nuovo presidente quest’anno, e che molte aree del paese non sono abbastanza sicure da permettere un’elezione legittima. Purtroppo non c’è nulla che possiamo fare a tal riguardo attraverso nuovi dispiegamenti di truppe. Intanto sono già pronte due squadre aggiuntive, che arriveranno sul campo in tempo per fare la differenza. Per dare ora una collocazione diversa ad altri corpi di combattimento inizialmente destinati all’Iraq, bisogna prevedere un periodo di almeno sei mesi – tra le altre cose, le truppe devono prepararsi per un clima, una cultura e una situazione completamente differenti. Ogni squadra aggiuntiva quindi dovrebbe arrivare poco prima delle elezioni. Considerando che il dispiegamento di un’unità sul campo richiede dai 30 ai 60 giorni – tempo in cui è peraltro possibile acquisire una sufficiente consapevolezza della situazione tale da sviluppare piani e metodi ragionevoli – è già troppo tardi per portare più truppe in Afghanistan (per lo meno con un certo grado di preparazione ed ordine) e sperare che possano apportare una qualche influenza sulle elezioni.

I comandanti sul posto dovrebbero essere in grado di attenuare il problema, almeno in parte, attraverso l’impiego delle riserve a disposizione per un aiuto; i nostri alleati europei dovrebbero riuscire a dare un piccolo contributo con un propria “mini-surge”. Ma lasciare ora in tutta fretta l’Iraq molto probabilmente ci porterebbe a dover concentrare ogni sforzo sui problemi della Mesopotamia nel 2010, piuttosto che sulla svolta da imprimere in Asia meridionale.

Prolegomeno ad un piano per la vittoria in Afghanistan.
Questa dissertazione non fornisce un piano o una strategia per ottenere il successo in Afghanistan. Piuttosto, mette a disposizione una serie di linee guida per elaborare il metodo indicato a  svilupparne uno, e per valutare i progetti presentati dall’amministrazione, dai suoi generali e da coloro che fanno proposte dall’esterno. In conclusione, un piano per la vittoria in Afghanistan deve essere elaborato all’interno del territorio afghano, così come il piano vincente dell’Iraq è stato escogitato all’interno dei suoi confini. E’ evidente che ogni progetto deve coinvolgere non solo gli Stati Uniti ed i loro alleati militari, ma anche ogni organizzazione civile ed internazionale di un certo rilievo, e deve inoltre coinvolgere profondamente la stessa popolazione afghana ad ogni livello. I nostri leader militari e civili hanno ben presente quanto tutto ciò sia ovvio. Ma dobbiamo riconoscere che a suo tempo non siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo non perché non abbiamo compreso cosa sia necessario fare, ma perché si tratta di un qualcosa di veramente difficile da realizzare.

Ma teniamo a mente questo: quello che in Afghanistan ora ci sembra così difficile non è senza speranze, non più di quanto lo fosse in Iraq guardando indietro. La posta in gioco è alta, come accade ogni volta che l’America decide di mettere a rischio i suoi giovani e coraggiosi uomini e donne. Il presidente Obama ha una grande opportunità nella difficile sfida che si trova ad affrontare. Fino ad ora, è apparso determinato a voler fare la cosa giusta. Merita, dunque, in questo tentativo il forte sostegno e l’incoraggiamento di ogni americano. 

© National Review Online
Traduzione Benedetta Mangano

Frederick W. Kagan è Resident Scholar all’American Enterprise Institute (AEI) di Washington.