Piante antisiccità per un pianeta che ha sempre più sete
06 Marzo 2008
di redazione
L’insufficiente disponibilità idrica e, in casi
estremi, la siccità, è un fenomeno che investe in misura crescente sempre più
ampie aree del nostro pianeta.
I cambiamenti climatici, l’uso irrazionale delle
risorse e una popolazione in espansione sono tra le cause principali di una
serie di processi che portano ad una lenta e graduale riduzione dell’acqua a
nostra disposizione.
L’impennata nei prezzi dei cereali cui abbiamo assistito
recentemente è proprio un effetto legato a condizioni eccezionali di siccità
che, nei paesi meno evoluti e dei climi più aridi, portano inevitabilmente a conseguenze
ben più drammatiche.
La disponibilità d’acqua è in realtà uno dei fattori che
maggiormente limita la produttività delle colture ed è quello che indubbiamente
determina la distribuzione delle specie sulla superficie terrestre: cactus
negli aridi ambienti desertici, foreste nelle zone umide e piovose.
Tuttavia, oltre
il 35% della superficie del nostro pianeta è considerata essere arida o
semiarida, cioè con una piovosità insufficiente per la maggior parte delle
colture.
I paesi più “umidi” d’altra parte non devono stare poi così tranquilli,
perché anche in queste zone le precipitazioni sono spesso concentrate in
periodi limitati dell’anno, spesso non coincidenti con le esigenze delle
coltivazioni. In pratica tutte le aree agricole del nostro pianeta prima o poi
dovranno confrontarsi con fenomeni di siccità che nelle condizioni più gravi possono
comportare perdite di produzioni fino al 50%. Sviluppare colture che possano
tollerare il deficit idrico è quindi un obiettivo essenziale per garantire il
progresso e/o la sopravvivenza dell’agricoltura nel XXI secolo.
Che le piante abbiano
bisogno di acqua per poter crescere, svilupparsi e darci dei frutti è un dato
di fatto, ma è anche vero che alcune piante hanno bisogno di meno acqua (anche
se non tanto meno) di altre per espletare le stesse funzioni.
Questa
constatazione, apparentemente così banale, racchiude l’essenza di un concetto
fondamentale in agricoltura, noto agli esperti come Water Use Efficiency
e su cui molti breeders hanno infruttuosamente dedicato gran parte della
loro vita professionale. Perché infruttuosamente? Perché in realtà, con i
metodi tradizionali di miglioramento genetico non si è mai riusciti a
trasferire questo carattere a colture di interesse agrario per renderle “meno
esigenti e più efficienti rispetto all’uso dell’ acqua”, tanto meno è stata
compresa la base fisiologica e genetica che determina quanto una%0D
pianta possa essere più o meno efficiente nel convertire questa risorsa sempre
più rara e preziosa in “prodotto”.
In altre parole, per anni si è brancolati
nel buio! Le biotecnologie sembrano aver invertito questo trend di insuccessi,
e sono proprio di questi ultimi anni due scoperte che hanno aperto nuove ed incoraggianti
prospettive verso la comprensione della base genetica della Water Use
Efficiency.
Tutto risiede nel controllo della funzione di questi minuscoli
pori (stomi) che consentono l’ingresso di anidride carbonica e la fuoriuscita
di acqua dalle foglie.
La quantità di questi pori sulla superficie fogliare
(Masle et al., 2005 – Nature 436: 866-870) ed il
controllo del loro meccanismo di aperture e chiusura (Vahisalu
et al., 2008 – Nature , doi:10.1038/nature06608)
sono gli elementi chiave che determinano quanta acqua la pianta “perde” o “usa”
per crescere e riprodursi.
Presto secondo alcuni ricercatori il metodo
genetico per controllare l’acqua utilizzata dalle piante potra’ essere commercializzato.
Entro 20 anni quindi le piante antisiccità.
(http://www.agi.it/estero/notizie/200802282041-est-rt11137-art.html).