Piazza Tahrir e la rivoluzione che non c’è
12 Aprile 2011
Nella notte tra venerdì e sabato, piazza Tahrir è tornata ad essere quella dei giorni della rivoluzione. La piazza che dal 25 gennaio scorso è stata il simbolo della voglia di cambiamento dei giovani egiziani, si è riempita di una folla oceanica che chiedeva, pacificamente, il processo immediato al deposto presidente Mubarak e le dimissioni del capo dell’esercito Tantawi, leader ad interim del Paese. Ai manifestanti, per la prima volta, si sono uniti alcuni giovani sottufficiali dell’esercito che, sfidando coraggiosamente il divieto dei loro superiori, hanno accusato la giunta militare dell’Egitto di ritardare volutamente il corso della giustizia e di stare organizzando una contro-rivoluzione strisciante.
La risposta dell’esercito non si è fatta attendere. I soldati giunti in piazza Tahrir, con la scusa della violazione del coprifuoco, hanno sparato sulla folla, uccidendo due manifestanti e ferendone una ventina. Da ieri piazza Tahrir è stata chiusa per ragioni di sicurezza, ma le violenze e le repressioni dell’esercito continuano. Ancora una volta, le speranze dei giovani egiziani filo-occidentali di poter vivere in un Egitto libero e democratico, sono state disattese. La percezione che le loro proteste fossero state vanificate, si è avuta chiaramente dopo il risultato del referendum del 19 marzo sulla modifica della Costituzione. Gli egiziani, con oltre il 77% delle preferenze, hanno scelto di modificare la Costituzione del 1951, confermando però l’articolo 2 dell’attuale Costituzione, che riconosce l’Egitto come uno stato islamico e la sharia come principale fonte del diritto egiziano.
Decisivi nel risultato del referendum sono stati i Fratelli Musulmani, organizzazione islamica integralista e molto potente finanziariamente, che è tornata all’attacco annunciando la sua discesa ufficiale in politica alle prossime elezioni parlamentari. Altra fonte di inquietudine è il riavvicinamento dell’Egitto all’Iran, fortemente auspicato dall’attuale ministro degli Esteri , Nabil al- Arabi. Qualche giorno fa, lo stesso al-Arabi ha incontrato Mojtaba Amani, un rappresentante del governo iraniano e alcune indiscrezioni parlano della nascita, a breve, di un gruppo parlamentare di amicizia “Iran- Egitto”. Le relazioni tra i due Paesi si erano interrotte nel 1979 quando l’allora presidente Sadat, in seguito alla ratifica degli accordi di Camp David, firmò la pace con Israele. Si può solo immaginare quanto un avvicinamento dell’Egitto a Teheran possa compromettere (e non poco) i delicati equilibri, non solo con Israele, ma con tutto il Medio Oriente.
Israele e Stati Uniti avevano già manifestato il loro scontento qualche settimana fa, quando Il Cairo ha concesso a due navi iraniane, di poter raggiungere le coste siriane senza passare dal Canale di Suez, suscitando l’allerta di Israele, pronta ad un eventuale attacco armato iraniano. Piccoli segnali che però non possono non destare allarme. Che i giovani di piazza Tahrir siano tornati a manifestare nel luogo dove tutto era iniziato, induce a una riflessione. Gli stessi giovani che, servendosi di social network come Twitter e Facebook erano riusciti a far dimettere Mubarak, hanno sì preso atto di non essere riusciti, come speravano, a influenzare né l’opinione pubblica né il voto del referendum. È vero anche che questo non è certo l’Egitto che avevamo sognato, anzi. Loro però, continuano a credere, nonostante tutto, che il cambiamento sia possibile. Ed è questo quello che conta.