Piazza Tienanmen, dopo trent’anni è ancora tabù il massacro del governo cinese
04 Giugno 2019
di Vito de Luca
Il 4 giugno prossimo, saranno trenta gli anni dal massacro ordinato dal governo cinese di Li Peng, primo ministro di allora, appoggiato da Deng Xiao Ping, il presidente della Commissione militare centrale, e dal il presidente Yang Shangkun. In mezzo il segretario del Partito comunista cinese, Zhao Ziyang, favorevole ad una mediazione tra esecutivo e studenti in rivolta in piazza Tienanmen, il teatro degli scontri tra l’esercito di Pechino e gli studenti in rivolta nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989. Un’autentica strage, di cui per decenni si parlò di «centinaia» di morti. Ma fino al 2017, quando un cablogramma inglese, citato in un articolo dell’Indipendent, parlò addirittura di 10 mila morti. Furono un mese e mezzo di eventi che si susseguirono, a partire dal 15 aprile del 1989, quando morì l’ex segretario generale del Partito comunista cinese, Hu Yaobang. Nell’occasione, gli studenti dell’università di Pechino affissero dei dazeabo, con cui elogiavano il leader politico riformista, criticando, indirettamente, quei dirigenti che, nel 1987, lo avevano costretto alle dimissioni.
Anche Gorbaciov, l’allora presidente dell’Urss, fautore della glasnost (trasparenza) nel proprio paese – il quale nella metà di maggio del 1989, partecipò ad un vertice cino-sovietico – si schierò per una mediazione, quando, incalzato dai giornalisti, affermò che se una protesta di quel tipo fosse stata a Mosca, egli avrebbe dato il via ad un dialogo. Parole cadute nel vuoto, perché vinse la repressione, in quella Cina in cui il governo chiamò, per soffocare poi nel sangue la rivolta studentesca, militari delle zone più remote dello Stato, parlanti dei dialetti ai più sconosciuti, proprio per evitare qualsiasi scambio o intesa tra le divise e i manifestanti. Insomma, il governo cinese decise per il taglio di ogni sorta di “pidgin”, di un codice comune di comunicazione, direbbero i linguisti, per giungere ad un accordo. L’unico mezzo di confronto, furono i carrarmati, che schiacciarono coloro che ad essi si frapposero. Fatti che, a distanza di trent’anni, sono ancora oggi tabù in Cina. Se ne sta parlando a Taipei, la capitale della provincia ribelle di Taiwan, dove è cominciata, in questi giorni, una serie di eventi celebrativi. Conferenze accademiche, una mostra fotografica, una veglia al lume di candela, concerti. Taiwan è libera e democratica e può ricordare liberalmente. Lo può fare (chissà ancora per quanto).
Tuttavia la strategia di Pechino è stata quella di rimuovere l’incidente dalla memoria della popolazione, più interessata ai progressi dell’economia, che al dibattito politico. A Taipei andranno anche esponenti della diaspora seguita alla repressione di Tienanmen, e rappresentanti del movimento democratico di Hong Kong (dove è stato appena riaperto un museo su quei giorni del 1989, unico in tutto il territorio cinese). Sul futuro della libertà di Taipei, però, c’è chi mette in guardia da facili ottimismi. Al Taipei Times, infatti, il professore Chen Li-fu, vicepresidente dei docenti universitari dell’isola, ha dichiarato che, «per anni abbiamo commemorato il massacro per difendere i diritti umani in Cina, ma oggi lo facciamo anche per proteggere la nostra sovranità: abbiamo paura per la nostra democrazia». Il governo italiano, che nelle scorse settimane ha steso i tappeti rossi a Roma per il presidente Xi Jinping, siglando una serie di intese economico-commerciali con la Cina per la cosiddetta nuova Via della Seta, in occasione della tragica ricorrenza, avrà qualcosa da dire?