Pinuccio Tatarella aveva intuito e temeva il disfattismo di Fini

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Pinuccio Tatarella aveva intuito e temeva il disfattismo di Fini

04 Febbraio 2011

Che tristezza questo dodicesimo anniversario dalla scomparsa di Pinuccio Tatarella, con commemorazioni contrapposte.

Per verificare quale sia quella buona, credo che basti citare gli oratori che si misureranno su opposti fronti sul suo ricordo, da un lato la consorte Angiola, i suoi due più fedeli collaboratori romani, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri, e il suo delfino pugliese Francesco Amoruso; dall’altro lato, sia pur legittimati dal fratello Salvatore, due suoi prestigiosi avversari come Luciano Violante e Nichi Vendola più un altro, Michele Emiliano, che lo sarebbe comunque diventato anche se forse, vivo Pinuccio, farebbe ancora il Magistrato. C’è anche un alleato pro-tempore, Pierferdinando Casini, che ne ha palesemente contraddetto il progetto bipolare, riesumando per di più – e a partire proprio dalla Puglia – certi ammiccamenti a sinistra che Pinuccio aveva sempre denunciato.

Per rileggere alla luce anche dei fatti di questi mesi la lezione di Pinuccio, basta peraltro ripercorrere tutte le commemorazioni che di lui sono state fatte in questi ultimi dodici anni, che ce lo rappresentano unanimemente come un profeta illuminato ed un instancabile artefice di una grande alleanza che mettesse insieme tutte le forze che in Italia non si riconoscevano nell’egemonia culturale e politica del post-comunismo, anticipatore e sostenitore geniale e leale del partito unico di centrodestra, nonché tessitore tenace ed efficace di un dialogo con la Lega che all’origine sembrava impossibile.

Ma pochi sanno che Pinuccio, nella sua lungimiranza, aveva intuito anche certe tentazioni ad un tempo velleitarie e masochistiche ad interrompere e invertire il tragitto da lui segnato e guidato verso, appunto, il grande unico partito di centrodestra e se ne era nettamente dissociato, fino a rinchiudersi polemicamente nella sua Bari ad occuparsi, peraltro con la sua consueta passione, di promozione culturale.

Era accaduto al Convegno An di Verona – quello della “coccinella”- in cui la montante gelosia di Fini verso Berlusconi ebbe la sua prima, aperta manifestazione nel palese fastidio con cui accolse il regalo del Cavaliere ai convegnisti: il “libro nero del comunismo”, che chiunque altro a destra avrebbe apprezzato, anche e soprattutto come la più netta e definitiva delle conferme di una scelta di campo nella quale, per troppo tempo, i missini si erano sentiti incompresi ed isolati. Erano i prodromi del fallimentare esperimento dell’ “elefantino”, nel quale molti lessero un tentativo di Fini di emanciparsi dal Cavaliere. A posteriori, il preannuncio del futuro Fli.

In quell’occasione, l’allora presidente dei deputati di An non prese significativamente la parola, mentre la sua principale creatura di fatto lo esiliava nominando contro di lui due coordinatori tra i quali, non senza un’evidente provocazione, uno pugliese.

Dei suoi timori e della sua amarezza per un andazzo che metteva a rischio tutto il suo lavoro, Pinuccio mi parlò nella sede barese del Roma venerdì 5 febbraio 1999, con parole amare per il suo Gianfranco. Parole che si sarebbero rivelate, purtroppo, anch’esse profetiche.