Pirati all’arrembaggio al largo di Yemen e Somalia. Che fare?

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Pirati all’arrembaggio al largo di Yemen e Somalia. Che fare?

22 Novembre 2008

La notizia pare presa da una cronaca del Seicento proveniente dal Mar delle Antille, in realtà siamo perfettamente ai giorni nostri e i mari sono quelli dell’Africa Orientale: in Somalia in questo momento ci sono una dozzina di navi in mano ai pirati, con oltre duecento persone in ostaggio. Ogni ora l’elenco si allunga. I bastimenti catturati vengono tenuti nascosti anche per mesi, come è capitato per esempio al cargo Great Creation, della compagnia armatrice Sinotras di Hong Kong, appena rilasciato dai pirati somali dopo circa due mesi. Nelle ultime ore i predoni hanno catturato altre tre navi, tuttora nelle loro mani, come la super-petroliera saudita Sirius Star, sequestrata sabato scorso a sud del porto kenyota di Mombasa di cui è stato chiesto un riscatto; la nave, grande come tre portaerei, con petrolio per cento milioni di dollari, è il più grande dirottamento navale della storia. Le altre prede recenti sono un secondo bastimento di Hong Kong, la Delight, con 25 marinai e un carico di grano destinato all’Iran, un peschereccio thailandese con sedici persone a bordo, e un mercantile greco che avrebbe dai 23 ai 25 membri di equipaggio.

Andrew Mwangura, coordinatore e portavoce dell’East African Seafarers’ Assistance Programme – Programma di Assistenza per gli operatori Marittimi dell’Africa Orientale –, con sede in Kenya, ha lanciato un terribile allarme: «I pirati stanno gridando al mondo un messaggio: possiamo fare quello che vogliamo, pensare l’impensabile, realizzare l’imprevedibile». In effetti sembrerebbe proprio così, specie se si considera che tutti sanno dove sono state portate queste navi sequestrate: si trovano a Eyl, sulle coste del Puntland, regione autonoma nel nord est della Somalia. Eyl appare ormai una sorta di porto franco della pirateria. Tuttavia, come ai tempi della Tortuga, nessuna autorità internazionale riesce mettere in piedi una strategia utile per liberare le navi rapite. Almeno finora.

Infatti la settimana scorsa un commando delle Forze Speciali francesi ha salvato con un blitz la coppia di connazionali che erano stati sequestrati il due settembre a bordo del loro yacht nel Golfo di Aden, tra Yemen e Somalia, e mercoledì scorso la Marina indiana ha riferito che una sua unità da guerra, la Isn Tabar, ha colpito e affondato, dopo una breve battaglia, una nave di pirati incrociata nel Golfo di Aden. Ma il vero cambio di rotta può arrivare da Bruxelles: l’Unione europea ha appena approvato la prima operazione navale della sua storia per lottare contro la pirateria che tormenta il golfo di Aden. L’operazione Eunavfor Atalanta è stata formalmente autorizzata dai ministri della Difesa, e dovrebbe iniziare in dicembre al largo del Corno d’Africa; la forza navale dell’operazione sarà sotto il comando del viceammiraglio britannico Philip Jones, e il suo quartier generale a Northwood, sulla costa inglese. Non si conosce invece la composizione della flotta anche se Spagna, Germania, Francia e Regno Unito hanno annunciato la loro partecipazione. L’Eunavfor Atalanta sarà costituita di almeno sette navi fra cui tre fregate e un battello di rifornimento. Inoltre avrà l’appoggio di aerei di pattuglia marittima.

Dall’inizio dell’anno, stando all’Ufficio Marittimo Internazionale, almeno 55 navi sono state sequestrate dai pirati nelle acque somale. Forse, però, sono molte di più, poiché spesso gli assalti non sono denunciati, e vengono risolti in breve tempo col pagamento di forti riscatti. Ma per avere un’idea completa del fenomeno bisogna spostarsi a Kuala Lumpur, in Malaysia, come spiega Nicolò Carnimeo, giornalista e docente di Diritto dei trasporti e della navigazione all’università di Bari: «Al trentacinquesimo piano del Menara Dion, un grattacielo di cemento e vetro, c’è il Piracy Reporting Centre. In questo ufficio vengono monitorati gli attacchi dei pirati nei mari del mondo, si raccolgono le segnalazioni degli abbordaggi, si provvede ai primi soccorsi allertando le unità navali più vicine. La piracy allert arriva tramite lo ShipLoc, un sistema satellitare di rilevamento a bordo di tutti i mercantili, oppure attraverso una help line attiva 24/24. Gli attacchi sono troppi, cinque alla settimana. Le gigantesche mappe geografiche dei cinque continenti sono costellate di spilli rossi con le coordinate degli abbordaggi». Qui ci si rende conto di come sia cambiata la pirateria internazionale da qualche decennio.

Fino agli anni 90 il cuore degli attacchi erano i mari della Cina e dell’Asia. Nel Sud-Est asiatico si contava una media di settecento arrembaggi all’anno, con 17 mila navi attaccate negli ultimi venticinque anni prima del 2000. «Il capitano Emilio Chengco negli anni 80 era uno dei più famosi pirati delle Filippine – continua Carnimeo –; si dice portasse i suoi clienti allo Sky Bar dell’Hilton Bayview Park Hotel a Manila, e da lì facesse scegliere le prede ormeggiate nella baia, come al supermarket: “Quale di queste le piacerebbe?”. E di prede ce n’erano centinaia, di ogni tipo, portacontainer, generale cargo, bulk carrier, tanker. Milioni di dollari che galleggiavano, carichi facilmente rivendibili». I pirati assaltavano i cargo su veloci imbarcazioni chiamate pancung; si allineavano sulla scia e da lì i lanun, scoiattoli volanti, si arrampicavano con rampini o canne di bambù. Una volta a bordo spianavano le armi e spesso le usavano per impadronirsi della nave. A quel punto gli infiniti arcipelaghi orientali diventavano comodo rifugio per la varie ghost ship rapite, che venivano camuffate, ridipinte, dotate di documenti falsi e rivendute.

«Oggi, invece, in Cina non si registrano quasi più attacchi a causa della severa repressione governativa: i pirati vengono immediatamente processati e giustiziati via fucilazione». Sanzioni severe e un maggiore controllo e pattugliamento hanno fatto diminuire grandemente la pirateria in Asia, grazie anche agli interventi Usa con cui sono state donate all’Indonesia quindici nuove unità navali e alla Thailandia un sistema di rilevamento radar già sperimentato con successo in Malaysia. Ed è proprio questo il motivo per cui è di contro aumentata l’attività piratesca nel Corno d’Africa, in particolare in Somalia, ma anche in Nigeria, luoghi ancora lontani dalla legge. Nel 2003, su 445 attacchi internazionali, ben 253 furono compiuti in Asia; nel 2007, su 263 arrembaggi nei mari del mondo, in Asia ne sono avvenuti 99; nel 2008, invece, ci sono stati 49 attacchi da marzo a giugno, ma solo 16 in Asia, mentre in Africa ogni giorno se ne stanno contando di nuovi. E l’assalto alla Sirius Star rivela per la prima volta un impressionante aumento dell’audacia di questi criminali, in grado di agire a 1500 chilometri dalla costa somala e scalare la fiancata della superpetroliera alta più di trenta metri.

Il già citato Andrew Mwangura, che con la sua organizzazione da anni monitora le acque dell’Oceano Indiano e denuncia gli atti di pirateria, afferma che gli attuali corsari africani sono sostenuti dalla ribellione islamica nel Corno d’Africa e motivati dalla ricerca di riscatti multi-milionari. L’aumento della pirateria nella regione ha fatto levitare i costi assicurativi, costretto alcune compagnie a fare il giro del Sudafrica anziché usare il Canale di Suez, oltre che innescare una risposta senza precedenti da parte di Nato e Ue. Poi c’è la corsa al saccheggio dei carichi d’armi. Ne è esempio il carico del bastimento ucraino Faina – anch’esso rapito dai somali e imprigionato a Eyl – nella cui stiva ci sono 33 carri armati e una montagna di armi e munizioni diretti all’esercito del Sudan meridionale (gli ex ribelli del Sudan People’s Liberation Army) per la guerra contro il nord del paese. Denaro (sotto forma di riscatti) e armi fanno gola specialmente ai gruppi estremisti islamici, i quali possono essere considerati una sorta di corsari, in quanto protetti da strutture governative o regimi territoriali, a differenza dei pirati orientali, propriamente banditi che agiscono per il personale tornaconto. E anche qui torna l’ombra di Al Qaida, infatti quando le Corti Islamiche hanno governato per sei mesi la Somalia, nel 2006, non esistevano i pirati. Appena il potere è stato assunto dal governo di transizione di Mogadiscio, da cui le Corti erano state cacciate, sono puntualmente rispuntati i banditi del mare come arma ulteriore nelle mani dei ribelli islamisti.

Nel frattempo la cittadella corsara di Eyl è stata fortificata a un punto tale che le stesse Forze Speciali francesi ritengono troppo rischioso intervenirci. Le cose forse cambieranno non appena verranno attuati in misura massiccia due interventi strutturali. Il primo è il dispiegamento della forza militare internazionale, dapprima con la specifica operazione di contrasto, e successivamente con il continuo pattugliamento capillare delle rotte. A questo contribuiranno tra gli altri la flotta russa e quella americana, appena dotata di due gioielli navali nati apposta per queste operazioni, le Littoral Combat Ship (LCS): navi velocissime combinate con un uso intenso di droni e di elettronica. Dall’altro, però, lo stesso Piracy Reporting Centre del Commercial Crime Service insiste affinché le compagnie di navigazione si adottino di sistemi di difesa e d’allerta elettronica molto sofisticati, in modo da essere costantemente collegati con le squadre di soccorso.

Ma questo è il futuro; per adesso il Golfo di Aden e il mare somalo sono ancora in mano ai pirati.