Più ombre che luci nell’operazione Mps-Antonveneta

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Più ombre che luci nell’operazione Mps-Antonveneta

09 Gennaio 2008

Più passa il tempo e più
l’acquisto della Banca Antonveneta di Padova da parte di Banca Monte Paschi si
rivela un boccone difficile da digerire.

Negli ultimi otto mesi il titolo
di Monte Paschi ha bruciato più di 4 miliardi in Borsa  – come ha scritto ieri
“Finanza&Mercati” – arrivando a capitalizzare appena 10,4
miliardi. Per altro, la  banca senese si
appresta a sborsare 8 miliardi per Antonveneta, una cifra che supera di  svariati miliardi  quanto gli spagnoli di Banco Santander avevano
pagato per la banca padovana all’inizio dell’estate, allorché le quotazioni
dell’intero settore erano nettamente più elevate,  prima dello scoppio della crisi dei mutui “sub
prime”.

La domanda che gli analisti si pongono
è perché Siena intenda spendere tanto per acquistare una banca di medie
dimensioni e anche un po’ malmessa. I sostenitori dell’operazione, tifosi della
strategia dei campioni nazionali, elogiano Monte Paschi perché acquista, anche
se pagando un prezzo salato,  l’ultima azienda
di credito disponibile in Italia e in questa maniera diviene la terza banca del
paese, per dimensioni. La domanda allora da porsi è: a che pro divenire la
terza banca italiana?

Una  prima giustificazione potrebbe essere che con
l’acquisizione si determinano economie di scala che fanno aumentare la
redditività del capitale investito. Purtroppo una vasta letteratura scientifica
dimostra che le economie di scala nel settore bancario sono limitate. Esse
risiedono principalmente nella attività di gestione del risparmio, dove si
possono mettere a fattore comune i costi fissi di ricerca e sviluppo di
prodotti finanziari e distribuirli su un parco clienti più vasto. Ma la  cosa paradossale dell’operazione Monte Paschi
è che per finanziare l’ingente acquisizione la banca senese si appresta a
vendere al migliore offerente proprio il suo ramo di attività di gestione del
risparmio (MPS Asset Management), per concentrarsi sulla attività di banca al
dettaglio, dove le economie di scala sono pressoché inesistenti.

Un diverso argomento per
giustificare la smania di crescita potrebbe essere quello di aumentare le
dimensioni per rendere la banca più difficilmente scalabile da parte di
predatori ostili. Tale argomento avrebbe senso per aziende il cui azionariato
sia aperto e contendibile, come nel caso di Capitalia e Unicredito o di S.Paolo
e Intesa. Nel caso di Monte Paschi invece la proprietà della banca è saldamente
in mano alla Fondazione senese, che ne controlla più del 50 per cento, e senza
il di cui  consenso nessuno può scalare
MPS;  che sia 10 volte più grande o più
piccola!

Per altro, un’acquisizione così
ingente determina  un serio problema per
la Fondazione. Se non vuole vedere 
diluito il proprio ruolo di azionista 
della banca  dovrà sottoscrivere
un significativo aumento di capitale. Ciò comporterà però che il patrimonio
della Fondazione verrà a essere fortemente concentrato in un unico cespite, la
partecipazione in  Banca Monte
Paschi,  legando quindi il flusso di
proventi disponibili per le sue attività benefiche all’andamento della
redditività di questo unico asset. Una politica di contraria a qualunque
criterio di sana e prudente diversificazione del rischio.

Insomma più ombre che luci in questa operazione, che se
da un lato porta alla ribalta nazionale i  managers che l’hanno impostata, dall’altro non
tutela adeguatamente l’azionista Fondazione e i beneficiari ultimi a cui sono
destinati i proventi del suo patrimonio: i cittadini e il territorio di Siena.