Più Stato e più regole non salvano il territorio
06 Ottobre 2009
C’è qualcosa di specificamente siciliano nel dramma di Giampilieri, ma lo sfondo non ha nulla locale e anzi è comune ad altre vicende analoghe.
In un articolo apparso ieri sul “Corriere della Sera” volto a ricostruire le ragioni della tragedia venivano riportate alcune dichiarazioni dell’ingegnere Sergio Basti, direttore centrale per le emergenze dei Vigili del fuoco, che evidenziava come nella vicenda un ruolo decisivo l’abbia avuto l’assenza di una “via di fuga costituita dagli alvei delle fiumare, ostruiti da troppe costruzioni. Non c’era nulla che potesse davvero fermare la frana”.
Ma come era possibile che si fosse arrivati a questo? La colpa principale, ci viene detto, è dell’abusivismo: il guaio è che nel Messinese erano state ordinate più di mille demolizioni, ma nessuna è stata eseguita. L’articolo scritto da Marco Imarisio lascia intendere che le organizzazioni criminali intimidiscono qualunque impresa possa essere interessata all’appalto per la demolizione. Il risultato è che ogni asta va deserta e quello che non dovrebbe essere più al proprio posto, perché distrutto, vi resta in piena tranquillità.
Questo dato è caratteristico di una parte rilevante del Sud, dove purtroppo la malavita la fa da padrone, ma il contesto generale non è diverso da quello di altre parti d’Italia: e se in Trentino o in Emilia magari c’è più acquiescenza di fronte alle leggi, giuste o sbagliate che siano, questo non deve impedirci di vedere come vi sia qualcosa di irrazionale e illegittimo in tale maniera di gestire il territorio.
L’ipotesi però che si debba cambiare strada non è neppure presa in considerazione e, di conseguenza, la litania di questi giorni attribuisce la responsabilità della sciagura all’assenza dello Stato, alla carenza di regole o comunque al fatto che magari le norme ci sono, ma non sono fatte rispettare. Ci sarebbe quindi bisogno di più piani regolatori, più magistrati, più poliziotti. Di custodi e di altri custodi ancora che custodiscano i primi. In tale ragionamento, però, qualche falla è evidente.
Poche aree del mondo hanno una rete di leggi, regole e regolamenti urbanistici tanto fitta come quella che ha l’Italia. Sotto questo punto di vista lo Stato è ben lungi dall’essere assente. Non mancano neppure consistenti apparati tecnici incaricati di presiedere a tutto ciò: e specialmente nel Sud (dove gli organici del settore pubblico, come è ben noto, sono tutt’altro che sguarniti). Quello che manca è il rispetto delle regole, ma a questo punto bisogna chiedersi se tale di pensare il diritto non apra la strada ad ogni genere di arbitrio. In molte casi le regole sono prive di autorità perché da tempo hanno smarrito ogni autorevolezza.
Cos’è, d’altra parte, un palazzo abusivo? È una costruzione che danneggia qualcun altro o lede i diritti altrui? Non necessariamente. Un palazzo abusivo è una costruzione che non è in regola rispetto a norme e criteri che sono stati fissati in maniera quanto mai arbitraria dal legislatore e da altri organi (il consiglio comunale, ad esempio) preposti a definire il quadro regolamentare. E così può essere illegale e abusiva un’abitazione costruita in aperta campagna se – per ipotesi – gli indici di edificabilità non lo permettono, e allo stesso modo una casa costruita in modo tale da ostruire il letto di un fiume, la quale mette a rischio la vita altrui. La differenza è che la prima costruzione non minaccia nessuno, mentre la seconda sì.
Qui abbiamo una traccia importante, e cioè il fatto che la gestione statalista del territorio ha messo sullo stesso piano azioni che non dovrebbero essere perseguite e altre, invece, che vanno assolutamente impedite. In questa situazione, è sufficiente che una legge regionale o una circolare cambino le carte in tavola e quello che prima non poteva e non doveva essere costruito, diventa invece perfettamente legittimo.
Un’alternativa ci sarebbe, anche se gli statalisti contemporanei non la sanno vedere. Si tratterebbe di ritornare al diritto privato e a quell’insieme di istituti che hanno sempre impedito di invadere o minacciare la proprietà altrui. Se davvero si riscoprisse la centralità della proprietà privata quale testata d’angolo di ogni ordine giuridico autenticamente tale, ogni singolo diverrebbe un difensore del territorio poiché disporrebbe degli strumenti adeguati a tutelare la sua casa e i suoi campi, la sua fabbrica e il suo giardino. In effetti, una rigorosa salvaguardia della proprietà comporta la facoltà di chiamare a giudizio chi – ad esempio ostruendo l’alveo di una fiumara – mette a rischio la vita e i beni altrui.
Invece che continuare a chiedere “più Stato” e magari pretendere che il nuovo paese di Giampilieri venga ricostruito sulle rovine del vecchio, bisogna allora tornare alle logiche della proprietà e, di conseguenza, della responsabilità. Bisogna che lo Stato smetta di fare e disfare il diritto sulla base delle pressioni dei gruppi di interessi, e bisogna che quella gran parte del territorio che è abbandonata a se stessa (perché demanio pubblico) trovi proprietari interessati a valorizzarla e prendersene cura.
C’è molta inciviltà nei comportamenti di quanti, cittadini e amministratori, hanno posto le premesse per la tragedia di Giampilieri. Lì non si doveva costruire e, una volta scoperto tutto questo, si doveva procedere con le demolizioni. Ma più a monte di tutto ciò c’è un ordine giuridico che ha espulso il singolo e soprattutto ha spogliato di diritti il proprietario. L’inciviltà che ha prodotto tanti lutti è figlia di logiche stataliste. Sarebbe bene che si iniziasse a comprenderlo.