Post-verità è anche quella su Rafsanjani il “moderato”

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Post-verità è anche quella su Rafsanjani il “moderato”

10 Gennaio 2017

Migliaia di persone a Teheran danno l’ultimo saluto a  Akbar Hashemi Rafsanjani, l’ex presidente iraniano scomparso lo scorso weekend a 82 anni. Tra i manifestanti, si sono levate voci contro il “Movimento verde”, i giovani che si ribellarono in Iran negli anni scorsi, prima della sanguinosa repressione ordinata da Ahmadinejad. La cerimonia funebre è stata officiata dalla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei, e Rafsanjani verrà sepolto nel mausoleo del fondatore della Repubblica Islamica, Khomeini, di cui fu il braccio destro. Tre i giorni di lutto nazionale.

Questa premessa serve a capire meglio quanto era “moderato” Rafsanjani, descritto in questi termini dalla stampa e dai media internazionali, quando invece la realtà è un attimo diversa da quella che ci viene servita a ora di cena nei telegiornali. Già dagli anni Ottanta, le intelligence occidentali avevano legato Rafsanjani ad una serie di attacchi terroristici, quando era ancora presidente del parlamento dell’Iran. Secondo la Cia, era il 1985, “il terrorismo iraniano è la più grande minaccia per gli Stati Uniti e il Medio Oriente” dicevano allora gli analisti del Washington Institute registrando una impennata negli attacchi sostenuti dagli iraniani rispetto agli anni precedenti. “Ad essere implicati nel terrorismo iraniano sono l’ayatollah Montazeri, il primo ministro Mir Hossein Mousavi, e il portavoce dell’assemblea consultiva Rafsanjani”.

Nel 1990 sempre gli analisti della Cia reputavano “Rafsanjani e altri leader iraniani” come una classe dirigente che “avrebbe continuato selettivamente ad utilizzare il terrorismo come strumento di politica estera per intimidire gli oppositori del regime, punire i nemici dell’Islam, e influenzare le decisioni politiche occidentali”. Nel 1992, l’agenzia Usa registrò una lunga lista di attività in questa direzione: da attacchi rivolti ai funzionari israeliani, sauditi e americani in Turchia, a complotti che prendevano di mira emigrati ebrei provenienti dalla ex Unione Sovietica. Ed era sempre il 1992 quando la notizia dell’attacco all’ambasciata israeliana a Buenos Aires fece il giro del mondo, nello stesso anno in cui quattro dissidenti iraniani assassinati vennero eliminati in un ristorante a Berlino. Allora un tribunale tedesco legò la scia di sangue all’attuale Guida suprema iraniana, Khamenei, e a Rafsanjani. 

La verità su Rafsanjani dunque è un’altra. Il blocco religioso al potere a Teheran va immaginato come una sorta di “Politburo” della vecchia Unione Sovietica, solo che al posto della ideologia comunista a fare da cemento della teocrazia iraniana c’è la rivoluzione islamica di matrice khomeinista. All’interno del blocco di potere, Rafsanjani è sempre stato ago della bilancia tra l’ala dura, quella degli Amhadinejad, per intenderci, e i pragmatici, i “riformisti” più disposti al ‘dialogo’ con la comunità internazionale, come ha fatto l’attuale presidente Rouhani sulla questione del nucleare. Un ruolo di ago della bilancia che adesso viene meno e che non è chiaro quanto metta a repentaglio la stabilità del sistema Iran, che resta sospeso tra gli “hard liners”, compresa la Guardia della Rivoluzione, la potente organizzazione paramilitare iraniana con grandi interessi finanziari impegnata sul terreno bellico anche in Siria, e i ‘moderati’ alla Rouhani, in un contesto internazionale destinato rapidamente ad evolvere dopo che Donald Trump prenderà ufficialmente le redini della Casa Bianca.