Prendimi per mano Grace, e non avrò paura

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Prendimi per mano Grace, e non avrò paura

12 Luglio 2009

Oggi non ho fatto altro che aspettare. Nient’altro.
La mattina ho aspettato che arrivasse il pomeriggio. Il pomeriggio ho aspettato che arrivasse la sera. La sera ho aspettato che arrivasse lei.

Quando si è consapevoli di aspettare qualcosa, il tempo si dilata come una spugna quando la bagni con l’acqua. Un minuto diventa un’ora. 60 minuti diventano quasi 3 giorni. Un’intera giornata ad aspettare è lunga come la vita di un eremita cieco, zoppo e sordo sul cucuzzolo di una montagna.
Forse anche muto, l’eremita.

Ora basta, ho finito di aspettare. E’ arrivata! Entra nella mia stanza. Sorride.
E’ sempre la prima cosa che fa, sorridere.
Santoddio, quant’è bella… Ogni volta che la guardo scopro che è bella. Forse perché lo è sempre in modo diverso.

Mi si avvicina, ha le scarpe rosse.
Gliele ho regalate io, quelle scarpe. Ne andiamo fierissimi. Il suo primo paio di scarpe col tacco! La prima volta che le ha indossate siamo usciti a cena. Dopo nemmeno cento metri se l’è tolte, ci ha infilato dentro le mani e ha proseguito scalza, come se niente fosse. Poi mi ha guardato e mi ha detto una roba tipo: “Non è che non ci so camminare, eh… Non farti idee strane, sono una donna a tutti gli effetti, io! E’ che ho freddo alle mani. Sai com’è, è luglio…”. Ma con una serietà quasi greve… Di quelle serietà che ti provocano attacchi di riso incontrollato per minuti e minuti. E se ci ripensi, ridi anche il giorno dopo. E’ bello ridere con lei. Più bello di un tramonto al mare. Più bello del Toro che vince lo scudetto. E io che pensavo che niente potesse essere più bello di quello…

Ora appoggia le labbra sulle mie, e io arrossisco. Col rosso le mie occhiaie nere devono essere ancora più in evidenza. Ci penso e, impanicato, divento rosso ancora di più, le mani iniziano a sudare e mi chiedo perché Dio non ce le ha fatte strizzabili.

Ha portato con sé un cestino da pic nic e un plaid blu a quadrettoni. Me li mostra. La guardo ebete come solo io so fare.

“Siccome fuori piove, ho pensato che non sarebbe male fare un pic nic qui, nella tua stanza. Ti va?”
Guardo fuori dalla finestra, il cielo è sereno, intravedo le stelle.

Lei estrae un piccolo stereo dalla cesta di vimini, pigia su PLAY e alza il volume.

Suono di pioggia che cade, un ritmo che nasce lento ma poi, via via, diventa sempre più veloce. Si sentono anche i tuoni! E… oh, sì, anche le pozzanghere, colpite in pieno dai piedi di qualche passante crudele e frettoloso. Se sei in casa al caldo, ti ritrovi quasi sempre a tifare per la pioggia.
Chiudo gli occhi, immagino un fulmine che squarcia il cielo e sento l’odore dell’erba bagnata.

“Piove proprio forte, eh! Meno male che siamo al coperto. Sento già l’aria più fredda… Vuoi un po’ di lenzuolino?” E gliene passo un lembo. Fa finta di tremare, si copre un po’ e ride. Ridiamo insieme, sotto la pioggia che lei mi ha inventato.

Appoggia lo stereo per terra e proprio in quel momento un tuono più forte degli altri esce dalle casse. D’istinto guardo la finestra. Stelle. Solo stelle.

Con lei è sempre stato così. Fa le magie… riesce a farmi vivere le favole che costruisce per me.
Ora è il momento del cestino. Lo riapre con le sue mani leggere, eleganti. Tira fuori un vasetto di salsa di soia e due Uramaki California. Una meravigliosa eccitazione mi pervade tutto. Ogni volta che andavamo a mangiare al giapponese, prendevamo quelli! Abbiamo provato di tutto… lo spice tuna, il tonno scottato, i nigiri… ma niente è come i California!

“Li ho presi da Kombu, dove c’è il cuoco Testa Grossa, è quello che li fa meglio. Ti ricordi la volta che siamo riusciti a mangiarne otto porzioni a testa?”
Come potrei non ricordarmene? Annuisco così forte che mi si potrebbe staccare la testa.
“E ti ricordi quando è arrivato il conto? Per una volta sono stati i giapponesi a fregare gli italiani al ristorante… e non il contrario! Però, in effetti, avevamo mangiato parecchio… e bevuto di più… Forse ci siamo fregati da soli!”

Ride e morde un pezzo di California. Immagino il riso scricchiolare anche sotto i miei denti, sento il sapore del pesce crudo mischiato col wasabi e lo zenzero…
Rimette mano al cestino, ne estrae un pezzo di pizza con i friarielli.
“E’ quella di Gennaro!”

La prego di farmi sentire l’odore… almeno l’odore… Dio, come sono felice! L’odore della pizza di Gennaro… Quante serate ci siamo fatti da Gennaro! Era la nostra pizzeria preferita, sembrava di starsene a casa, tanto ci era famigliare.
“Deve aver cambiato passata di pomodoro”, mi dice frenetica dopo averne assaggiato un pezzetto, “è un po’ più acida… ma sempre buona, per carità! Comunque non glielo dico a Gennaro, sennò s’offende. E’ più permaloso di tua madre!”

Le mani eleganti entrano ed escono dal cestino: frittata alle cipolle fatta in casa, polpette col sugo che lei stessa aveva imparato a fare grazie a una ricetta su internet (e per due mesi ha fatto solo quelle, pranzo e cena), grissini al kamut che mi mandavano ai matti, patatine fritte del Mac Donald’s, fragole, panna montata e persino una torta di mele ancora miracolosamente calda, un profumo di buono da far venir voglia di piangere.

La mia Grace ora è un fiume in piena. Parla, gesticola, ride, mi fa ridere.

“Ti ricordi?” mi dice. E tira fuori colombe dal cilindro e la nostra vita da un cestino di vimini.
Ogni portata è un ricordo, un’avventura, una serata matta, un’ubriacatura, un aneddoto, una litigata, un viaggio, un film sul divano. Ogni cosa in quel cestino siamo noi. Io e lei.

Io e lei che facciamo l’amore. Io e lei mano nella mano per le vie del centro. Io e lei a urlarci contro che è finita. Io e lei a ballare ad una festa sulla spiaggia.
Io non chiedo altro, sono in pace col mondo quando sto con lei.
Io non chiedo altro, sono di nuovo vivo quando sto con lei.
Prendimi per mano Grace, bimba mia.

Prendimi per mano e accompagnami nelle tue favole. Fammi vivere i tuoi sogni. Fammi rivivere i nostri sogni. E perdonami se io invece, da sei mesi, sono soltanto capace di farti vivere un incubo.
Prendimi per mano amore mio, perché se non ci sei tu qui con me, questa stanza d’ospedale non è nient’altro che una stanza d’ospedale.

Prendimi per mano Grace, e fammi correre via da questo letto, da questi tubi, da questo bianco che mi acceca.

Prendimi per mano tesoro, perché solo così non ho paura di quello che potrebbe arrivare domani, tra un’ora, tra un minuto.

Io non avrò paura di andarmene, se fino alla fine ci sarai tu che mi sorridi.

Perché è sempre la prima cosa che fai, sorridere. E io voglio che sia anche l’ultima. L’ultima per me. L’ultima cosa che vedo. Io voglio andarmene mentre guardo il tuo sorriso, solo così non avrò paura, mia piccola coraggiosa Grace. Inventrice di mondi. Inventrice della mia felicità. Inventrice dei miei ultimi sei mesi di non vita.

Prendimi per mano e non avrò paura.

Solo che è tutto così lento! Quando si è consapevoli di aspettare qualcosa il tempo si dilata come una spugna quando la bagni con l’acqua… un minuto diventa un’ora…
Io aspetto te, che sei la vita. E aspetto la morte.
E allora prendimi per mano Grace. Inventami la vita che mi resta.
Inventami il mare, una barca, inventami la neve.
Sì, domani inventami la neve, e la cioccolata calda!

Inventa per me, ti prego. Che senza di te, io sono già morto.