Presidenziali: quanto conta il fattore F (di fede)

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Presidenziali: quanto conta il fattore F (di fede)

14 Giugno 2007

“Gesù è il mio filosofo preferito”: sette anni fa, con questa affermazione, George W. Bush conquistò la destra religiosa, una componente senza la quale un candidato repubblicano ha davvero poche chance di approdare a Pennsylvania Avenue. Negli Stati Uniti, la nazione “unita sotto Dio” come recita il Pledge of Allegiance, il fattore F di Faith è determinante per vincere le elezioni presidenziali.

Lo sa bene Karl Rove, l’architetto delle vittorie dell’ex governatore del Texas, che ha sempre puntato sul voto dei churchgoers, di quelli che vanno a Messa la domenica. I dati delle ultime presidenziali parlano chiaro: nel 2004, Bush ha convinto il 52 per cento degli elettori cattolici contro il 47 per cento ottenuto dal cattolico democratico John F. Kerry. Disarmante il confronto sul voto degli evangelici: 78 per cento contro 21 a favore di Bush. Ma le cose, nel 2008, potrebbero andare in modo diverso. Il politologo John Green della University of Akron, intervistato dall’Associated Press, nota che, a differenza del passato, “i candidati Democratici si soffermano ora di buon grado a dialogare sulla loro fede ed hanno organizzato le campagne elettorali per attrarre il voto religioso”. Dunque, parlare della propria relazione con Dio non è più un tabù per i leader del partito dell’Asinello.

La prova eclatante di questa inversione di tendenza è stata offerta da un dibattito televisivo ospitato dalla CNN ad inizio mese, che ha visto i tre frontrunner Democratici, Hillary Clinton, Barack Obama e John Edwards confrontarsi sull’impegnativo trinomio “Fede, valori e povertà”. Secondo Ruth Marcus del Washington Post, tale evento, promosso dal gruppo evangelico Sojourners vicino a posizioni liberal, dimostra che il partito Democratico sta operando delle incursioni in un settore considerato tradizionalmente roccaforte del Grand Old Party. Il promotore dell’inedito dibattito, il reverendo Jim Wallis, ha dichiarato alla Abc che, nel corso degli anni, le persone di fede, nel partito Democratico, si sono sempre sentite emarginate. Ora, però, finalmente i candidati democratici possono liberamente parlare di fede e questo rappresenta, secondo Wallis, un “cambiamento di straordinaria rilevanza”. Gli fa eco David Kuo, già vicedirettore dell’Ufficio della Casa Bianca per le Faith Based Initiatives (organizzazioni di matrice religiosa). Per Kuo, “ironicamente, i Democratici hanno appreso da Bush la lezione sulla fede meglio dei Repubblicani. Romney è terrorizzato dal parlare della sua fede. Giuliani ha meno voglia di parlarne di Romney. E McCain appartiene a una generazione che ha sempre mostrato reticenza nel discutere in pubblico della religione”. In effetti, i candidati repubblicani incontrano notevoli difficoltà a sintonizzarsi con la religious right. Basti pensare che James Dobson, a capo dell’influente organizzazione Focus on Family ha dichiarato che non voterà mai il pro gay e pro choice Rudy Giuliani. Gli evangelici strizzano, invece, l’occhio a Fred Thompson, che, dopo la formazione del comitato esplorativo, sembra sempre più prossimo all’annuncio della sua candidatura.

La tavola rotonda dei candidati Democratici, tenutasi alla George Washington University, si è caratterizzata per un’alternanza di riflessioni serie e momenti leggeri. Hillary Clinton ha affermato che senza la fede non avrebbe superato la crisi matrimoniale innescata dall’infedeltà del marito Bill. Dal canto suo, Edwards ha confessato che per lungo tempo si è allontanato da Dio, fino a quando la tragica morte di suo figlio ha determinato un ritorno impetuoso della fede. Non sono mancate le battute spiritose. Quando ad Edwards è stato chiesto il suo peccato più grande, il telegenico ex senatore ha risposto che la lista è “troppo lunga”. A chi, poi, le aveva domandato cosa chiedesse a Dio nella preghiera, Hillary ha risposto: “Signore, perché non mi aiuti a dimagrire?”. Più composto Obama, che, si direbbe dalle nostre parti, studia da presidente. Il senatore afroamericano ha dichiarato di credere nella presenza del male nel mondo. “Quando vedo aerei schiantarsi nei palazzi e uccidere degli innocenti”, ha affermato, “lì c’è il male”. Poi, a chi gli domandava se ritenesse che Dio appoggia una parte durante una guerra, Obama ha riecheggiato il suo eroe Abraham Lincoln, rispondendo che bisogna piuttosto chiedersi se la nazione è dalla parte di Dio.

L’interesse dei due partiti per le intenzioni di voto degli evangelici si conferma, quindi, molto forte. Ma non meno viva è l’attenzione per il voto cattolico, anche perché su 18 candidati alla presidenza, ben 7 (quattro Democratici e tre Repubblicani) sono di fede cattolica. Oltre a Giuliani, anche tutti i quattro candidati del partito Democratico, sostengono il diritto all’aborto. Una posizione che pare tuttavia non rappresentare un ostacolo insormontabile: secondo un sondaggio del 2004, infatti, il 53 per cento dei cattolici americani si dichiara in favore dell’interruzione della gravidanza. “I cattolici”, sostiene Clyde Wilcox, docente alla Georgetown University, “si trovano nel mezzo: i Repubblicani li corteggiano su temi come l’aborto e i matrimoni gay; i Democratici sono più vicini a loro su tematiche quali povertà, pena di morte e solidarietà sociale”.

In definitiva, nel Paese in cui il presidente conclude la sua formula di giuramento con le significative parole So help me God, non stupisce più di tanto che il fattore F possa determinare i destini di un candidato alla Casa Bianca. Ma c’è anche chi giudica eccessiva questa corsa al “voto religioso”. E’ il caso di Cal Thomas, columnist conservatore, che avverte: “La competenza, non l’ideologia né la religiosità dovrebbero essere prese in considerazione in queste elezioni”. Come a dire, dobbiamo eleggere un presidente. Non un teologo.