Prima del 2012 Obama dovrà spiegare molte cose agli americani
03 Giugno 2011
È ufficiale: dell’ufficiosa campagna elettorale di Sarah Palin, di cui abbiamo dato notizia settimana scorsa, si sono adesso accorti anche i grandi media italiani. Come andrà, partirà davvero e, soprattutto, arriverà alla metà? Poterlo dire è ancora assolutamente troppo presto, e questa è una di quelle verità granitiche che però giornali e tivù scordano volentieri. La campagna elettorale per le presidenziali del 2012, infatti, è ancora limitata fasi troppo preventive per poterci lasciar proferire giudizi sensati. Barack Hussein Obama, che prese a suo tempo una lunga rincorsa, è partito comunque dopo rispetto all’oggi. E ricorderanno tutti come la sua totale inesistenze poté comunque trasformarsi in un successo enorme. Le titubanze e le debolezze del coté Repubblicano, dunque, ci stanno ancora tutte. Non inficiano né compromettono, per ora, alcunché. L’importante è che poi smettano. Diciamo da dopo l’estate, sul far della sera del 2011. Anzi, considerato con il senno di poi, l’annuncio sin troppo prematuro della propria scontatissima ricandidatura dato da Obama settimane fa con enormi settimane di anticipo sul calendario tradizionale (per di più per una non-notizia come quella) è stato un altro colpo portato da lui a segno, chapeau. La notizia, cioè, non c’era; che il presidente in carica si dovesse ripresentare alle elezioni non era nemmeno una ovvietà, ma un dogma a cui si attengono anche i non credenti; ma giocarsi tutto presto così, troppo per gli avversari, non nel mezzo del presunto disorientamento (che se fosse sarebbe eccezionale, grave) degli avversari Repubblicani, ma nel pieno della pre-tattica di studio (normale, fisiologico), ha raggiunto il grande scopo di far parlare la stampa di quel che Obama vuole essa parli (l’“impreparazione” dei Repubblicani), di trasformare un dato di fatto in un’accusa e di vincere ai punti la fase preliminare dello scontro vero ancora tutto da venire (per quanto siamo stati tra i primi, ed entusiasticamente, ad annunciare una sfida elettroale, lunga, dura e partita ben prima del tempo).
Bene inteso, i Repubblicani potranno presto (dopo l’estate, sul far della sera del 2011) mostrarsi davvero finalmente impreparati, ma questo resterebbe indipendente dalla situazione di oggi. Oggi, che la loro situazione non è affatto quella dell’impreparazione, solo quella della manovra logistica, tattica, di correttamente attendista. Ripassiamoci la storia della preparazione prossima e remota di ogni elezione primaria che i duecento e poco più anni di storia statunitense hanno messo in campo e vedremo che invece di affannarci a gridare al fallimento Repubblicano prima del tempo faremmo meglio a utilizzare i nostro spazi giornalistici con qualche colpo d’ala in più. Ci provo. Se un candidato debole su piazza oggi esiste, questi è Obama. Francamente, sul piano dello sfruttamento propagandistico, il sottoscritto si aspettava una coda un po’ più lunga per l’eliminazione di Osama bin Laden (1957-2011). A meno di colpi di scena per definizione imprevedibili, infatti, quel fatto peserà assai poco nell’urna del lontanissimo 6 novembre 2012. Soprattutto perché il terrorismo internazionale di matrice islamista è vivo e vegeto, colpisce a ammazza; perché il Pakistan resta un vero e proprio buco nero, e i cronisti di vaglia che documentano i legami strutturali e storici fra 007 d’Islamabad e al-Qai’da muoiono come mosche; e perché qualcuno dovrà prima o poi spiegare bene ’sta guerra in Libia… Le misura delle debolezze odierne di Obama è insomma di gran lunga superiore a quella che egli si portava comunque addosso anche nel momento del trionfo, il 4 novembre 2008. Prima fra tutte il fatto che adesso l’elettorato americano lo conosce. Cioè lo ha visto operare, governare, contraddirsi e zoppicare. Il ragionamento vale sempre per chiunque stia al potere: che sia più facile criticare dall’opposizione che guidare un esecutivo è ovvio, ed altrettanto evidente è quanto il partito e il personale al vertice di un Paese siano sempre chiamati a pagare il conto dei problemi nazionali, siano essi di responsabilità loro o no. Ma nel caso di Obama la magnitudine dell’aspettativa generata a suo tempo attorno a un uomo politico ignoto al Paese eppure sapientemente orchestrata con gran concorso di mezzi e media, nonché giocata pressoché esclusivamente su elementi propagandistici e ben di rado su precise indicazioni di programma, per di più avvantaggiata dalla possibilità, allora, di far cappotto con le critiche all’Amministrazione precedente, evidenzia ora in maniera lampante lo iato rispetto ai risultati concretamente ottenuti – le promesse mantenute –, approfondendo ogni giorno che passa il solco fra “sogno” e realtà. In un contesto generale come quello della politica americana, insomma, dove la personalizzazione della dialettica politica è fortissima, Obama rischia davvero grosso.
Le sue debolezze principali sono del resto ancora e sempre quelle che hanno permesso all’opposizione Repubblicana di ricuperare, in due anni, uno svantaggio non abissale sul piano numerico ma deleterio su quello dell’immagine, consegnando loro una maggioranza nettissima dentro il 112° Congresso. Ovvero una ricetta economica nota – si è parlato sovente di “neokeynesismo” – e proprio per questo avversata da una componente anche numericamente molto significativa dell’elettorato americano, a cui sono progressivamente venuti ad aggiungersi schiere di ex supporter delle strategie della Casa Bianca delusi dal permanere del forte stato di crisi in cui versano milioni di cittadini americani.
Fatta la tara dell’entusiasmo iniziale, e al netto di qualche momento sporadico d’intenso successo dovuto a questo o a quel frangente occasionale, la misura del gradimento pubblico dell’operato di Obama è stata, dalla sua elezione a oggi, un altalenante sali e scendi lungo una parabola in costante declino. E questo sul piano della politica sia nazionale sia internazionale.
Internamente, Obama è riuscito presto e bene a ferire i sentimenti più profondi di una parte rilevante (anche ma non solo numericamente) della nazione americana, lanciandosi in proclami e quindi in misure di governo improntate a un radicalismo ideologico (per esempio rispetto a quelli che vengono definiti “princìpi non negoziabili”) piuttosto inusitato nel mainstream americano, e così riuscendo a scontentare una parte cospicua anche del proprio stesso elettorato del 2008: certamente quello più “moderato”, ma pure parzialmente quello che allora lo votò tributandogli un plauso “sentimentale” legato alla retorica del “primo presidente nero” degli Stati Uniti. Questo elettorato ex sentimentale e oggi in buona parte deluso costituisce peraltro un “terzo genere” tutto obamiano rispetto alle due ali classiche del mondo politico Democratico – ovvero la componente “moderata” e quella ideologicamente più radicale ma (forse) minoritaria – e dal 2008 a oggi è venuto progressivamente ingrossando le propria fila. Certamente è difficile che si muti sic et simpliciter in nuovo elettorato Repubblicano, ma, per male che a questi ultimi possa andare, quell’elettorato deluso tutto obamiano dovrebbe prevedibilmente tornare se non altro ad abbassare l’affluenza alle urne (il gran segreto del successo di Obama nel 2008) premiando così indirettamente gli avversari. Gli affondi radicali operati sul piano della politica interna da Obama sin dai primi giorni del suo insediamento hanno infatti certamente rinsaldato la sua constituency più radicale, ma difficilmente questa può fornire ai Democratici il differenziale necessario per battere i Repubblicani. E che il tema dei “princìpi non negoziabili” continui ad avere una forte presa sull’elettorato americano lo dimostra la costanza con cui esso si è espresso contro misure di tipo radicale proposte da consultazioni referendarie su temi “eticamente sensibili” celebrate in concomitanza delle elezioni del 110° Congresso il 7 novembre 2006, del 111° Congresso e della Casa Bianca il 4 novembre 2008 e del 112° Congresso il 2 novembre 2010: cioè eleggendo personale Democratico o Repubblicano non importa, ma sempre esprimendosi su quelle tematiche in maniera conservatrice (in linea peraltro anche con l’orientamento mostrato dall’elettorato e dall’esecutivo nell’“era Bush jr.”) anche mentre al contempo premiava candidati progressisti per il Congresso e per la Casa Bianca in “Stati progressisti” come la California. E questa dimostrazione si rafforza ancora di più osservando la costante presenza di quei temi “eticamente sensibili” nella retorica pubblica del movimento dei “Tea Party”, che di per sé sarebbe solo (o così viene spesso descritto) un movimento di protesta fiscale, e ciò smaccatamente presso suoi esponenti quali il senatore del Texas Ron Paul (quintessenza dello spirito libertario), o suo figlio (e in tutto suo erede) Rand (eletto al Senato dal popolo del Kentucky e punta di diamante del movimento), o ancora di Michelle Bachmann (la neofita Repubblicana della Camera che dentro di essa ha organizzato un caucus di eletti in linea con lo spirito dei “Tea Party”). Nei mesi che lo separano dal 6 novembre 2012 Obama dovrà insomma trovare il modo per spiegare a quell’elettorato che nel 2008 lo votò entusiasticamente in massa e che giorno dopo giorno si è venuto però assottigliando perché le tasse sui cittadini e sulle loro intraprese non calino, anzi che semmai crescano, e persino aumentino di numero volendo la Casa Bianca imporre nuove imposte a un ceto definito propagandisticamente “ricco” ma in realtà composto in gran parte di appartenenti alla classe media. Dovrà anche spiegare perché la spesa pubblica aumenta costantemente e perché, per dolorosa che sia, l’unica concreta alternativa viene proposta oggi dai Repubblicani. E infine dovrà spiegare come essa riesca a contemperare e ad amministrare l’annunciato ritiro dell’esercito dal quadrante afghano della lotta al terrorismo impegnandosi però in un nuovo conflitto, quello libico, che per la stragrande maggioranza dei cittadini e buona parte dell’opinione pubblica è lontano, oscuro, impopolare e ininfluente per l’interesse nazionale.
Marco Respinti è presidente del Columbia Institute, direttore del Centro Studi Russell Kirk e autore di L’ora dei “Tea Party”. Diario di una rivolta americana