Prima dell’addio Olmert punta al ritiro dei coloni dalla Cisgiordania
09 Settembre 2008
Forse sono solo gli ultimi fuochi di un processo nato alla conferenza di Annapolis e naufragato sull’impossibilità di raggiungere un accordo concreto. Fatto sta che il premier israeliano Olmert – giunto ormai all’ultimo atto della sua carriera politica – sembra voler continuare sulla strada delle trattative con il leader dell’Anp Abu Mazen, andando incontro alle richieste dei palestinesi e di Condoleezza Rice: riportare entro i confini israeliani i coloni residenti nel West Bank.
La questione delle colonie israeliane in Cisgiordania è sempre stata – insieme alle discussioni sul futuro status di Gerusalemme – uno dei maggiori ostacoli al tavolo delle trattative tra mediatori israeliani e palestinesi. Per mesi il segretario di Stato americano Condoleezza Rice, in occasione delle sue visite in Medio Oriente, ha evidenziato la necessità di restituire al futuro Stato palestinese quei territori oltre confine edificati ed abitati da cittadini israeliani: analoghe raccomandazioni sono giunte poi da molteplici osservatori internazionali.
Sulla questione, Israele ha sempre soprasseduto per non andare incontro a prevedibili scontri interni. Ma giunto ormai alla fine del suo incarico, Olmert sembra aver preso coscienza della necessità di tali concessioni: senza più nulla da perdere, il premier ha annunciato ieri un possibile piano di rientro per i coloni. La strategia governativa – riportata ai media all’uscita dal domenicale consiglio dei ministri – è semplice: incentivare economicamente coloro che decideranno di lasciare spontaneamente le proprie case nel West Bank, un’offerta che riguarderebbe circa 70.000 coloni attualmente residenti oltre i confini.
"Presto dovremo prendere delle decisioni che includeranno l’evacuazione dei residenti (nel West Bank, ndr), dovremmo prepararci sin d’ora a questa possibilità e pensare alle possibili conseguenze" ha dichiarato Olmert, cercando di preparare i propri concittadini alle "dolorose rinunce" che si renderanno necessarie. La questione, in Israele, è molto calda: nessuno ha dimenticato le immagini degli sgomberi forzati attuati in occasione del ritiro dalla Striscia di Gaza (2005), quando si rese necessario l’uso dell’esercito. Un’eventualità che Olmert non vorrebbe replicare: da qui l’idea di compensare concretamente coloro che andranno incontro ai piani governativi senza opporre resistenza.
Data la delicatezza del problema, le critiche non sono mancate: tanto da parte dell’opposizione quanto da parte di alcuni ministri, mettendo in luce ancora una volta le divisioni che giorno dopo giorno erodono il consenso nei confronti dell’esecutivo Olmert. Tra i più accesi contestatori del piano governativo spicca il ministro dei Trasporti Shaul Mofaz: nel corso di un incontro con alcuni sostenitori di Kadima, il ministro ha dichiarato che l’iniziativa "indebolirebbe la posizione di Israele in tutte le trattative future". Concedere l’evacuazione dei coloni senza nulla in cambio – sostengono insomma gli oppositori all’iniziativa del premier – sarebbe un ulteriore passo falso di Israele, l’ennesimo segno di debolezza dopo le recenti concessioni al gruppo militante libanese di Hezbollah.
Ma al di là delle polemiche, la questione dei coloni appare ormai come uno dei troppi ostacoli sulla via di un accordo che – stando alle promesse di Annapolis e alle volontà dell’amministrazione statunitense – si dovrebbe sancire entro tre mesi: un’impresa disperata, alla quale lo stesso Abu Mazen lascia intendere di non credere più. Nel corso di un incontro al Cairo con il presidente egiziano Mubarak, lo scorso week-end il presidente dell’Anp ha detto che "nonostante entrambe le parti si siano sforzate, non ci sono garanzie sulla possibilità di giungere ad un accordo entro la fine dell’anno". Tanto più che, sempre secondo Abbas, un accordo dovrebbe necessariamente fare chiarezza su tutti i punti, Gerusalemme e questione dei rifugiati palestinesi inclusi: "La soluzione che vogliono i palestinesi deve includere tutti i problemi". Posizione diversa da quella del premier Olmert, che ha proposto di cercare un accordo rinviando al futuro la questione di Gerusalemme capitale.
A complicare ulteriormente la situazione è infine lo scenario politico, locale e internazionale, che vede Israele prigioniero di un vero e proprio stallo. Lo Stato ebraico si trova infatti sotto la guida "ad interim" di un premier senza più poteri concreti, indagato e in attesa delle primarie del suo partito: una data che sancirà la sua uscita dal panorama politico, ma che fino a quel giorno lo vedrà guidare un Paese con le mani legate. È di oggi infatti la notizia, riportata dal "Jerusalem Post", che anche in caso di rinvio a giudizio Olmert non rassegnerà le proprie dimissioni fino a quando non verrà istituito un nuovo governo (o non si terranno elezioni anticipate). Una scelta che frena bruscamente le trattative di pace: in caso di vittoria della destra a possibili elezioni, infatti, tutti i termini degli accordi andrebbero necessariamente rivisti.
Ma lo stallo israeliano è aggravato anche dalla momentanea assenza di Stati Uniti ed Europa dallo scenario israelo-palestinese. Ormai sotto elezioni, Washington attende il nuovo presidente: sarà allora McCain o Obama a riprendere in mano la questione mediorientale, da punti di vista chiaramente differenti. Per quanto riguarda l’Europa, infine, a farla da padrona è in queste settimane la crisi georgiana: è la Russia a preoccupare gli Stati del Vecchio Continente, israeliani e palestinesi (così come i nemici di Gerusalemme, da Hezbollah all’Iran) per ora possono aspettare. La sensazione è che i passi avanti, se ci saranno, li vedremo nel 2009: quando Israele e gli Stati Uniti saranno entrambi guidati da nuovi capi di Stato.