Prima e dopo il 2 giugno in Italia non è mai stato chiaro chi comanda

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Prima e dopo il 2 giugno in Italia non è mai stato chiaro chi comanda

02 Giugno 2010

Festeggiamo il 2 giugno, una data fondamentale nella nostra storia, perché la vittoria della Repubblica nel referendum del 1946 è il primo atto del popolo italiano per costruire uno Stato moderno. È la nostra piccola gloriosa rivoluzione, dette il via alla nostra prima Carta, ancora molto da migliorare e anche in grande ritardo rispetto al Bill of Rights del 1689, ma l’unica Carta che abbiamo. Vi furono inevitabili polemiche sulla vittoria della Repubblica, ma il 54% della popolazione votò a favore, con solo il 45% contro. Basta vedere come votarono Milano, Torino, Genova, Brescia, Venezia, Trento, Bologna, Firenze, città fondamentali per l’unificazione italiana, per comprendere che la monarchia aveva esaurito la sua funzione e, soprattutto, che i Savoia avevano distrutto per sempre l’istituto monarchico in Italia.

In genere,  si considera la vittoria della repubblica una conseguenza del comportamento di Vittorio Emanuele III durante la seconda guerra mondiale, la fuga da Roma, l’armistizio dell’8 settembre – e certamente la vittoria della repubblica fu anche la condanna del comportamento dei Savoia – ma si dimentica che l’Italia era entrata nella prima guerra mondiale, ignorando la volontà del parlamento, per un patto segreto firmato a Londra da Sidney Sonnino, appoggiato dal re, dalle gerarchie militari e da Salandra, con cui ci si impegnava a fare scendere in guerra il paese, allora alleato di Austria e Germania, a fianco di Inghilterra e Francia. Si dimentica soprattutto che l’unificazione italiana nel 1861 non produsse – come accade sempre alla nascita di un nuovo Stato – una nuova costituzione, perché il Regno d’Italia si configurò istituzionalmente e giuridicamente come un ampliamento del Regno di Sardegna, una monarchia costituzionale, fondata sullo Statuto albertino, concesso da Carlo Alberto di Savoia nel 1848. 

Lo Statuto albertino è una carta octroyée, concessa dal sovrano e pervasa dalla cultura dell’assolutismo illuminato, col re ancora paragonato a un padre affettuoso, simile al sovrano del Patriarca di Robert Filmer, uno dei teorici dell’assolutismo inglese del primo ‘600. Lo Statuto albertino, octroyée, ma “flessibile”, modificabile per legge ordinaria, si limita a dichiarare i diritti dello Stato, a individuare la forma di governo, ma non si pone il problema della regolamentazione dei rapporti tra Stato e società civile, né degli istituti per distinguere i poteri dei sovrano dai poteri del primo ministro e del parlamento, problemi già risolti nel 1807 nel Regno Unito. Nel Regno d’Italia, come nell’Inghilterra prima della guerra civile e della gloriosa rivoluzione, il re era e restava capo supremo dello Stato, decideva la politica estera e sceglieva i ministri militari negli anni antecedenti la prima guerra mondiale. Poteva convocare e sciogliere le camere, aveva il potere di rifiutare una legge approvata se non corrispondeva agli interessi della Corona. Soprattutto, la sovranità non apparteneva alla nazione, ma al re. Nonostante il Regno d’Italia si presentasse come una monarchia parlamentare stile inglese, in Italia non fu mai chiaro chi comandasse, se il re o il parlamento e il conflitto diventò evidente quando al governo arrivò  Mussolini, su invito del re. Ma neanche il Duce del fascismo si decise mai a risolvere il conflitto e rimase un dittatore dimezzato.

Per decidere se dovesse comandare, il re o il parlamento, gli inglesi fecero la guerra civile e nel 1649 impiccarono Carlo I, prigioniero dell’esercito del parlamento. Le Nineteen Propositions inviate dal parlamento a Carlo I a York parlano chiaro: il parlamento, la borsa del Regno, dichiarava al re di volere decidere la politica estera e gli chiedeva di  impegnarsi ad allearsi e a fare la guerra con le nazioni scelte dal parlamento, né di decidere matrimoni reali senza l’assenso dello stesso. Il parlamento voleva decidere la politica estera, poiché erano i suoi membri a sborsare il denaro per  finanziare le guerre e volevano quindi fare la guerra per proteggere i propri interessi e quelli del paese, non quelli della Corona. Dopo l’eliminazione di Carlo I e il periodo Cromwell, fu deciso di richiamare Carlo II, soprattutto perché il sovrano era anche il governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra. La seconda guerra civile o gloriosa rivoluzione sancirono definitivamente col Bill of Rights chi comandava. Fino al 1807 il sovrano inglese ebbe la possibilità di opporsi a una legge votata dal parlamento, dopo 1807 il re rimane il capo della Chiesa d’Inghilterra, ha un ruolo cerimoniale, ma non ha alcun potere se il governo possiede una larga maggioranza, come nel caso Thatcher o Blair. Nel caso Blair, in occasione della morte di Diana, fu addirittura Blair a dettare alla regina le misure da prendere per non diventare completamente impopolare e perdere il regno.

Il ruolo del sovrano e del parlamento sono sempre stati chiari in Gran Bretagna dal 1689, mentre in Italia non era chiaro chi aveva diritto di comandare dal 1861 al 1946 e anche con la Repubblica non è chiaro chi comanda, perché il Presidente della Repubblica, come in Inghilterra fino al 1807, può opporsi a una legge votata in Parlamento da un governo con larga maggioranza. Il potere del primo ministro italiano non è simile quello del premier britannico, né a quello del presidente della repubblica francese o statunitense, eletti dal popolo. Questo genera da noi ancora molti problemi, confusioni e conflitti, che sono un’eredità della fragilità giuridico-politica risalente al 1861, quando lo Statuto albertino fu allargato al Regno d’Italia.

L’ambiguità su chi comandasse fu chiara durante la prima guerra mondiale, quando l’Italia entrò in guerra con un patto segreto sancito dal re, all’insaputa del parlamento, e durante la seconda guerra mondiale, quando Vittorio Emanuele III, che aveva firmato la dichiarazione di guerra, in contatto con gli Stati Uniti dal 1942, che avevano offerto ai Savoia una pace separata, decise dopo lo sbarco in Sicilia degli Alleati di firmare l’armistizio e fuggire da Roma, lasciando la nazione in mezzo a due eserciti stranieri in guerra per il suo controllo. Ai Savoia interessava soprattutto salvare  la dinastia, non la nazione, e per questo, nonostante avessero sottoscritto anche le leggi razziali del ’38, si defilarono nella speranza di salvare la Corona. Vittorio Emanuele III non si comportò come un sovrano durante la seconda guerra mondiale, si comportò  come uno spettatore quasi indifferente alla guerra.

Re Giorgio VI, padre di Elisabetta II, nonostante il gabinetto di guerra gli avesse suggerito di riparare in Canada, decise di rimanere a Londra con  tutta la famiglia, nonostante i bombardamenti violenti a cui fu sottoposta la città e gli stessi palazzi reali. Re Giorgio fu in prima fila a sollevare dovunque il morale delle truppe britanniche, parlava alla radio per invitare a resistere, le stesse principessine Elisabetta e Margaret parlavano dalla radio ogni sera per non fare sentire soli i bambini del Regno. Non si può dire che i Savoia abbiano tentato una qualche comunicazione col popolo di cui erano sovrani. Neppure il 25 luglio e neppure l’8 settembre fecero un appello alla nazione per spiegare la loro scelta. Secondo Hobbes, fautore della monarchia assoluta, quando un re fugge, perde i suoi diritti. E gli italiani, col referendum del 2 giugno, fecero la loro gloriosa rivoluzione e decisero di diventare finalmente un popolo sovrano. Festeggiamo la Repubblica oggi, il primo atto di nascita dell’Italia moderna.