
Prima o poi il governo Monti finirà, bisogna che la politica si faccia trovare pronta

16 Novembre 2011
Vi confesso che non sono particolarmente conquistato dalla retorica del golpe tecnocratico e della democrazia offesa che vedo imperversare su Facebook e riecheggiare nei giornali di centro-destra. Non perché non vi siano elementi di verità ma perché la polemica mi appare ormai superata ed è inutile crogiolarsi in argomenti insieme velleitari e consolatori.
Il governo Monti è nato e sebbene con un orizzonte temporale incerto deve provare a compiere la sua missione. Certo la compagine ministeriale mostra una notevole carenza di buon senso unita a una buona dose d’arroganza accademico-bancaria. Ma probabilmente è vero che ormai si trattava di una strada ineluttabile.
Il punto semmai mi sembra un altro: come si prepara e come si gestisce il prossimo (speriamo non lontano) ritorno in campo della politica? Monti gode in questo momento di un vasto consenso popolare, si parla del 90 per cento degli italiani pronti a dargli fiducia nonostante la raffica di sacrifici che si preparano. Ma appunto 90 è il numero della paura: l’impressione è che il consenso non derivi da un rapporto sano tra il governo e i cittadini, basato sulla rappresentanza degli interessi diffusi e la tutela dell’interesse generale; quanto piuttosto sulla paura che le cose possano andare peggio di come appaiono oggi e la speranza che, costi quel che costi, questo peggio si possa evitare.
Sulla paura però si costruiscono programmi esili e prospettive di corto raggio. Specie se gli indicatori della catastrofe finanziaria dell’Euro e dell’Italia non volgeranno al bello in breve tempo. Oggi agli italiani non batte il cuore per Monti ma gli si affidano per salvare il portafoglio. Il problema però è che per fornire soluzioni lungimiranti e stabili alla crisi occorre altro che il sostegno della paura: occorre un messaggio chiaro da rivolgere agli italiani, occorre formulare un convincente modello di paese, immaginare una nuova ipotesi di convivenza europea ed evocare un’identità per l’Italia nel consesso delle nazioni, che abbia radici certe e orizzonti avanzati ; qualcosa insomma in cui credere piuttosto che qualcosa da temere. E questo è un compito che solo la politica può adempiere: il fatto che finora non ne sia stata capace è esattamente il motivo per cui Monti è divenuto ineluttabile.
Per questo ora il problema non è più tanto come Monti sia entrato in scena e se il suo governo ci piaccia o meno, ma come gestire la fine di questa fase emergenziale e rientrare nella normalità democratica senza passi falsi e senza incertezze, per non pagare un prezzo troppo alto alla voracità dei mercati.
L’orizzonte temporale del governo può avere tre esiti: può cadere nel giro di poche settimane davanti ai veti incrociati dei partiti e all’impossibilità di trovare maggioranze in Parlamento a sostegno di misure come l’anticipo dell’età pensionabile o la reintroduzione dell’Ici. Si andrebbe a votare sotto la neve, tra gennaio e febbraio in condizioni molti difficili; può esaurirsi tra aprile e maggio, avendo magari approvato le misure più urgenti ma trovandosi col fiato corto per affrontare riforme di più vasta portata. Si voterebbe a giugno sempre in modo traumatico per la legislatura. Infine può arrivare al 2013 dove finalmente la Costituzione impone di tornare comunque alle urne, avendo accumulato un buon bagaglio di riforme, privatizzazioni e interventi strutturali.
Ognuna di questa ipotesi è possibile e ognuna di queste ipotesi andrebbe governata per non lasciare che “i mercati” abbiano di nuovo voce in capitolo sugli sviluppi successivi. La politica, i partiti che sono i soci fondatori di questo governo, dovrebbero intendersi già da ora su come affrontare queste tre possibili scadenze senza gettare il paese nel caos ma anzi dando ai cittadini e al resto d’Europa la sensazione di un passaggio tenuto sotto controllo.
Pd e Pdl non hanno voluto per vari motivi entrare con propri esponenti nel governo Monti e lo si può capire. Questo però non vuol dire che possano andarsene in vacanza o contentarsi di apparire più spesso in tivvù. Ci vorrebbe un comitato parlamentare o qualcosa del genere, dove gli avversari di sempre discutano, si intendano e prendano impegni pubblici su come gestire passaggi delicati e rischiosi come quelli descritti sopra. Dovrebbero concordare un almeno parziale disarmo reciproco da accuse e recriminazioni e garantire una campagna elettorale magari dura ma sulle idee e i programmi e non sull’odio e la delegittimazione.
Pd, Pdl e Terzo Polo dovrebbero prendere l’impegno davanti agli italiani e all’Europa, se il responso delle urne non fosse in grado di produrre una maggioranza sufficientemente forte da portare a compimento le riforme promesse, di governare assieme in una grande coalizione sì, ma politica e sancita dal voto popolare.
Se non si vuole perdere assieme sovranità nazionale e sovranità popolare nella luccicante palude della tecnocrazia bisogna sapere come uscirne. I mercati, i tecnici, Merkozy, l’asse franco-tedesco, l’Eurotower, Goldman Sachs, o i poteri forti che preferite, devono sapere che qui si è fatto a malincuore un passo in dietro, non una ritirata.