Prima o poi Obama dovrà fare i conti con la natura “hobbesiana” del mondo

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Prima o poi Obama dovrà fare i conti con la natura “hobbesiana” del mondo

11 Febbraio 2010

L’omaggio all’internazionalismo e la denigrazione non solo del nazionalismo e della sovranità individuale, ma anche dei valori comuni e delle speciali relazioni che esistono nella comunità delle nazioni libere, comportano contraccolpi concreti sulla politica estera americana. Amici e nemici, alleati e avversari se ne sono già accorti. Se il nostro scopo principale è quello di guadagnarci il posto di onesti cittadini della comunità internazionale, dobbiamo abbandonare ogni manifestazione di arroganza, ogni atto di orgogliosa affermazione del nostro punto di vista, e cominciare a trattenere e limitare la nostra spesso irresponsabile potenza agendo come uno dei tanti. Per far ciò, dobbiamo fare due cose: primo, espiare le nostre colpe; secondo, comprendere e adattarci.

L’espiazione è stata effettuata senza risparmio nell’anno appena passato. Di seguito, tutti i “per” del tour delle scuse:

– per il ruolo del presidente Eisenhower nel colpo di stato in Iran del 1953
– per la prima volta in cui è stata impiegata la bomba atomica
– per il nostro razzismo e i maltrattamenti inflitti ai nativi dell’America
– per aver presuntamente disprezzato e non rispettato l’Europa non riconoscendole il suo ruolo – guida nel mondo (può essere perché ha vissuto per 60 anni come un parassita sotto la protezione dell’America?)
– più di tutto, dobbiamo scusarci per mostrare un rispetto e una comprensione non adeguati verso il mondo musulmano.

Tutto ciò dal leader di una nazione che ha condotto cinque campagne militari negli ultimi vent’anni per difendere popolazioni musulmane indifese e liberarle dai loro oppressori. In Bosnia, Kosovo, Kuwait, Afghanistan, e poi l’Iraq di Saddam. Poi, dopo l’espiazione – la catarsi della confessione – arriva la riconciliazione, la mano tesa verso il pugno chiuso.

Adesso abbiamo alle spalle un anno di tutto ciò. Quel che è chiaro è che quella riconciliazione, resettare le relazioni, ripartire da zero con gli avversari, ha le sue conseguenze. Perché? Perché quei conflitti non vengono dal nulla. Non erano un capriccio. Hanno le loro radici in uno scontro di valori e di interessi, che vede coinvolti i nostri alleati. E’ per questo che riavviare il mondo – premere il bottone di reset in tutto il mondo – ha conseguenze, anche e soprattutto sui nostri alleati.

Resettare le relazioni con la Russia e ritirarsi sul tema della difesa antimissile significa tradire la Repubblica Ceca e la Polonia, che si sono assunte dei rischi nell’unirsi a noi in questa impresa difensiva. Significa lasciarle ancora una volta a meditare sull’affidabilità dell’America e sulla loro indipendenza nell’era post-guerra fredda, e sull’eventualità che stiano tornando in quel limbo in cui la loro sovranità nazionale è limitata dai diktat di Mosca.

Di qui il piegarsi di Obama nella sua quattro giorni in Cina – dopo essersi rifiutato di incontrare il Dalai Lama e senza neanche un gesto in favore dei diritti umani – e il suo insistere in una gratuita promozione di quel paese al rango di superpotenza. A un certo punto della sua visita Obama ha persino ventilato un interesse cinese alla stabilità del subcontinente indiano, parole accolte con viva irritazione in India e che si inquadrano in un disegno più ampio di liquidare quel paese, rivale della Cina in quella regione e nostro alleato naturale per avere con noi in comune lingua, tradizioni, democrazia, e un comune nemico: il radicalismo islamico.

Gli indiani hanno dovuto accontentarsi del premio di consolazione costituito da un pranzo ufficiale alla Casa Bianca, che ha visto una partecipazione così scarsa che quasi mancavano anche i Sahalis (nel senso di “imbucati”, in riferimento al recente episodio, ripreso dai media, in cui una coppia ha partecipato, non invitata, a un ricevimento alla Casa Bianca – ndt). Altre conseguenze? La continua pressione su Israele sulla questione, che non sussiste, degli insediamenti, in modo da provocare una costante sovraesposizione dei rapporti tra Stati Uniti e Israele allo scopo di guadagnarsi il favore dei palestinesi e quindi degli stati arabi più ostili.

Di qui, ancora, la commedia degli errori in Honduras, in cui un riflessivo Obama ha finito per appoggiare un alleato di Hugo Chavez mentre si opponeva alle iniziative di quasi tutte le istituzioni democratiche del paese, che avevano agito per rimuovere l’aspirante dittatore in base all’articolo 239 della costituzione honduregna. Di qui la dimostrazione di fedeltà alla Siria, ostracizzata dal governo britannico per il suo ruolo nell’omicidio Hariri, che ora si gode il riavvicinamento dell’amministrazione Obama, la quale sta offrendo riconciliazione e il ritorno dell’ambasciatore Usa. I libanesi indipendentisti e filo-occidentali sanno capire dove tira il vento: ecco allora la stupefacente visita del primo ministro libanese Saad Hariri a Damasco per inchinarsi al presidente Assad, l’uomo che lui ben sa essere dietro la morte di suo padre, ma che adesso rappresenta la potenza regionale in ascesa dato il “reset” obamiano nei riguardi del sovrano siriano.

Adattarsi ai nemici non è un pasto gratis; ha i suoi costi.

Infine, il pièce de résistance della sua politica di costosi adattamenti: l’Iran, del cui regime settario e clericale Obama ha abbondantemente riconosciuto la legittimità, insistendo col mantenervi buone relazioni, mostrandosi però lento se non muto nell’appoggiare la gente scesa in piazza per chiedere democrazia. Il problema principale di questa politica estera – una macchia sulle tradizioni americane di difesa delle forze democratiche – non è semplicemente la sua ingenuità; la cosa peggiore è che ha fallito. Abbiamo scelto la Russia invece dell’Europa dell’est, e cosa abbiamo ottenuto? Cooperazione sulla questione Iran? Niente. E dalla Cina? In effetti, abbiamo avuto dichiarazioni esplicite che si opporrà a eventuali sanzioni. Cosa abbiamo avuto dalle nostre pressioni su Israele? Il crollo completo dei negoziati. Per 16 anni, i palestinesi hanno negoziato con Israele senza alcun congelamento degli insediamenti – fino a quando è sopraggiunto Obama a cambiare il mondo. Gli arabi adesso rifiutano di negoziare, preferendo restarsene da parte e lasciare che siano gli Stati Uniti a estorcere concessioni unilaterali da Israele.

Il mondo virtuale di Obama. Questo è solo l’inizio. In un anno soltanto, abbiamo appena iniziato a vedere i frutti dell’internazionalismo obamiano. Ma i segni sono incontrovertibili. Se questa politica dovesse protrarsi per altri tre anni, o addirittura per altri sette, avrebbe profonde conseguenze in tutto il mondo. Darebbe luogo a una graduale ritirata dell’America – con la sola eventuale eccezione dell’Afghanistan, sebbene Obama abbia insistito sul fatto che entro 18 mesi inizierà il ritiro anche da lì – e avrebbe inesorabili conseguenze, facilmente prevedibili: quando i nostri ormai ex alleati vedrebbero andarsene l’ombrello americano, non resterebbe loro che adattarsi a quei paesi dai quali li stavamo proteggendo.

Sono talmente ovvie le conseguenze derivanti da questa confusione tra mondo reale e il mondo – per dirla alla Sarkozy – “virtuale di Obama”, che è difficile per me credere che l’attuale politica possa andare avanti indefinitamente, perché a un certo punto la realtà empirica deve necessariamente imporsi: la realtà dell’intransigenza e dell’aggressività iraniane; la decisione con cui la Cina persegue i propri interessi, nazionali, locali e globali; la determinazione della Russia nel tornare a controllare i suoi vicini; il rifiuto dei paesi arabi di accettare ogni ragionevole accomodamento dei tanti che i vari governi di Israele abbiano proposto; le mire siriane sul Libano; e i progetti di Hugo Chavez sui paesi più poveri dell’America latina.

Forse mi sbaglio. Forse questa sorta di politica estera illusoria potrà durare a lungo. Forse Obama si dimostrerà refrattario all’evidenza e all’esperienza. In tal caso, tutti questi accomodamenti, il venir meno delle alleanze e il rafforzamento degli avversari a Mosca, Pechino, Teheran, Caracas e altrove continuerà, fino a quando non verremo svegliati da un cataclisma.

Sono questi i dazi imposti dal vivere in un mondo virtuale. Io prego di uscirne presto.

Tratto da Heritage Foundation

Traduzione di Enrico Simone