Prima Roma, poi la Camera: il ritorno degli esuli in patria
30 Aprile 2008
Ci sono momenti in cui la storia si incarica di intrecciare i binari della trama in un gomitolo di simboli. E la storia politica italiana non si è sottratta, negli ultimi giorni, a questo imprevedibile esercizio alchemico. Chi mai avrebbe potuto pensare che, nello stesso giorno in cui Gianfranco Fini si fosse insediato come terza carica dello Stato alla presidenza della Camera dei deputati, Gianni Alemanno avrebbe fatto lo stesso in Campidoglio? Pochi, pochissimi, forse nessuno. Proviamo a guardare nella loro ravvicinata sequenza questi due eventi, dall’enorme peso politico e – passatemelo – iconografico, dal punto di vista della destra italiana e della sua storia tormentata.
Persino Pietrangelo Buttafuoco, prendendo congedo da questa storia, ha voluto idealmente rendere omaggio ai protagonisti dell’oggi con un pezzo sul Foglio perché, quando certe cose accadono, non ci si può sottrarre da un confronto, anche doloroso, anche corpo a corpo, con la forza dirompente delle storie che diventano Storia grazie a ciò che Alain Badiou chiama gli “eventi”.
È un’astuzia del destino, più che della ragione, che Gianfranco Fini si presenti davanti alla Camera che si accinge a governare, con un discorso volutamente sobrio e aperto al dialogo. Chi ha sofferto l’emarginazione, e porta – di solito con grande riserbo – le ferite di generazioni passate, non può che essere naturalmente portato a gettare ponti verso l’avversario, non a bruciarli. Si discuterà molto del riconoscimento del 25 aprile come festa di tutti gli italiani, certo, e non sempre il registro delle analisi sarà quello giusto, epperò Fini l’ha dovuto fare, ha dovuto e voluto dimostrare che il processo di ricostituzione di un minimo (minimo ma reale) comun denominatore della nostra memoria storica nazionale è un cammino che procede per addizioni e non per cumuli di fratture.
L’hanno detto in tanti ma conviene ripeterlo, perché così è: l’arrivo di Fini al picco istituzionale di Montecitorio è un atto, coagulato nel potere dell’istante, che riconsegna nella sua pienezza la storia della destra italiana alla storia della democrazia italiana. Gli esuli in patria, termine abusato epperò utile in questo ragionamento, hanno finito di girovagare alla ricerca di un posto nel filo narrativo su cui si snoda la nostra identità nazionale. Senza bisogno che qualcuno chiedesse altri strappi, altre rimozioni, altri gesti dolorosi e inutili. Il primo Presidente di destra della Camera dei deputati chiude i giochi del Novecento e ne apre altri, nella repubblica bipolare e forse tra un po’ bipartitica. E proviamo a sommare l’evento della mattinata di ieri, dal forte contenuto pubblico ma dall’immensa valenza per la storia della destra italiana, con quello del pomeriggio, la consegna simbolica ad Alemanno delle chiavi del Comune di Roma. Non è esagerato affermare che, per l’imprevedibilità, la repentinità e la carica iconica dell’evento, la vittoria romana del 2008 è paragonabile solo alla vittoria berlusconiana del 1994. Non è esagerato, viste le conseguenze che questo ha generato tanto nel centrosinistra (lo sgomento per una sconfitta inattesa e terribile, la crisi delle radici di potere della leadership veltroniana, lo scacco del Partito Democratico) quanto nel centrodestra (la definizione di un asse Roma-Milano di una possibile “modernizzazione da destra”, il riequilibro dei rapporti di forza con la Lega, la liberazione del centrodestra romano dal peso di un’egemonia divenuta insopportabile), affermare che Gianni Alemanno, il candidato partito tra i pernacchi degli alleati e finito a urlare slogan di pacificazione a una folla ubriaca di gioia, è già entrato nella storia politica italiana. Se saprà restarci, non solo come una meteora gravida di promesse e avida di risultati, non lo possiamo sapere. Sta a lui dimostrare che il primo sindaco della Capitale non (solo) di destra, ma che viene da destra, non è una parentesi anomala, un intoppo, uno scherzo momentaneo delle bizze del fato, ma una scommessa che può mettere radici anche in una Roma che pareva troppo impigrita dalla convivenza con l’alleanza di potere rutellian-veltroniana per poter pensare, anche solo un istante, a cambiare in una corsa pazza il suo cavallo più rappresentativo. Solo un anno fa, qualcuno, anzi più di qualcuno, si divertiva a scrivere, e a commentare, e a comunicare, e a decidere che la destra italiana era solo un cumulo di macerie, un caravanserraglio di ex camerati gettati come carne da cannone nella furia balistica di una storia dove erano destinati a ingrigirsi nel ruolo di comparse. Troppi hanno scritto così, qualcuno ha fatto anche piccola e triste fortuna con qualche libello dedicato all’argomento, eppure gli stessi signorotti delle profezie arrugginite dovrebbero fermarsi, solo un attimo, e pensare dove hanno sbagliato. E poi leggeremo di Giorgio Almirante, e di Fiuggi, e della storia del Msi, e del dialogo a volte fecondo a volte no tra la destra e le istituzioni, e leggeremo dei giornalisti a caccia di qualche ricordo inedito per infiocchettare con luccicanti gossip la calendarizzazione del momento. Noi ci accontentiamo di essere cronisti di qualcosa che stava già scritto, da qualche parte, quando un gruppetto di semiclandestini decide di fondare il Msi. E questo basta, per oggi.