Primavera Araba, le proteste aiutano ma non bastano
18 Giugno 2011
Quando sentiamo gli Arabi protestare per più democrazia, ci viene automatico associare la parola “democrazia” al modello liberale di governo adottato dall’Occidente. In quest’associazione immediata risiede un’idea sbagliata che dà per scontata l’applicabilità del concetto di “sovranità del popolo” ai paesi islamici.
Un elemento fondamentale per l’instaurazione di una democrazia, cosi come la intendiamo nel mondo occidentale, è la separazione tra la politica e la religione, che è in conflitto con l’affermazione Islamica della sovranità di Dio. Nonostante la natura laica della “Primavera Araba”, le forme di governo e la cultura dei paesi afflitti dalle proteste, rendono praticamente impossibile il distaccamento della religione dalla vita politica del paese. Dunque, i Paesi Arabi sono pronti ad abbracciare la democrazia? Fino a che punto si può applicare questo concetto al contesto Arabo?
La democrazia non segue necessariamente un unico modello politico; è discrezione di ogni Stato decidere fino a che punto includere elementi religiosi nelle normative statali; ma la netta distinzione tra i due è cruciale.
Alcuni analisti escludono l’incompatibilità dell’Islam con concetti democratici, sopratutto considerato che l’Islam si fonda sulla Sharia, ovvero su un insieme di regole codificate. Se questa codificazione sia sufficiente o meno a rendere democratico un Paese è un altro discorso. Può uno stato considerarsi democratico semplicemente perché ha una Costituzione?
In termini giuridici l’incompatibilità è discutibile; dopotutto la Sharia contiene concetti come la “regola della maggioranza”, la “consultazione reciproca” (Shura), la “responsabilità dei leader”, ma il problema risiede nel background culturale degli arabi.
Se analizziamo la situazione dei paesi attualmente investiti dalla “Primavera Araba”, come l’Egitto, la Giordania, il Marocco, l’Arabia Saudita e la Siria, noteremo che queste Repubbliche e Monarchie sono accomunate da un elemento: l’assenza di una cultura politica, di una classe politica laica, di un ceto medio, tutte cose che renderebbero possibile ed efficace un processo di transizione dal regime attuale ad un regime più democratico.
La struttura della società gioca un ruolo altrettanto importante: l’assenza di una classe politica è la conseguenza della configurazione tribale delle società arabe. In Giordania, per esempio, il parlamento è tradizionalmente composto di leader delle più importanti tribù del paese e questi sono spesso eletti per la loro ricchezza e non per le loro capacità politiche o per i successi ottenuti da una trasparente competizione politica.
Inoltre, questa mancanza sopra citata è anche il risultato di un forte nazionalismo e del bisogno d’identità che porta alla discriminazione delle minoranze, le quali si trovano spesso escluse dalla vita politica del paese, in quanto non riconosciute.
Il rischio delle società senza un’appropriata rappresentanza politica organizzata e senza un ceto medio, è quello di una separazione forzata tra la politica e la religione creerebbe un vuoto che potrebbe essere facilmente colmato da sistemi politici con poco senso del valore morale. Al contrario, potrebbe anche succedere che qualora i leader dovessero decidere di concedere maggiori diritti democratici, come ad esempio le libere elezioni per la rappresentanza parlamentare, il potere finisca nelle mani dell’unica opposizione politicamente e strutturalmente organizzata presente sul territorio, ovvero i partiti Islamici (l’Islamic Action Font in Giordania e i Fratelli Musulmani in Egitto). In tal caso, il potere sarebbe spostato verso quei gruppi politici che basano la loro politica su valori religiosi e sulla legge Islamica, piuttosto che su concetti laici e democratici. Significa, dunque, che maggiore democrazia, e la creazione di Stati laici nel mondo arabo, porterebbe a un abuso di potere?
I leader Arabi si trovano ad affrontare un vero dilemma. Il problema non è quello della compatibilità tra la Democrazia e l’Islam, ma dell’effettiva capacità dei leader a gettare le basi nella società, per far sì che la transizione democratica abbia il suo corso. Dovranno affrontare proteste, essere pronti a rinunciare ad alcuni dei propri poteri e scendere a compromessi.
La storia ci insegna che la democrazia non èqualcosa che si può donare, ma un tesoro per il quale bisogna lottare; il margine di errore per l’ottenimento di tale ricchezza è molto limitato. Le proteste non sono sufficienti a portare democrazia in un paese, ma per ogni processo c’è sempre un inizio.