“Primum vivere”, sui principi trasmessi dalla tradizione cattolica
17 Febbraio 2013
Continuo a commentare quello che ho definito, giusto un secolo dopo l’eptalogo del conte Gentiloni, l’esalogo che Alleanza Cattolica ha proposto per le elezioni del 2013 (http://www.alleanzacattolica.org/comunicati/201212.htm).
Lo scopo, ora come allora, è promuovere una convergenza di candidati e forze politiche più sul discorso cattolico – cioè sui principi del diritto e dell’ordine naturali come trasmessi dalla nostra tradizione nazionale – che sul nome cattolico.
In esso – e me ne sono occupato nel precedente articolo – il primo posto spetta ai temi concernenti il diritto alla vita. Primum vivere. Com’è logico, secondo l’ordine dei «benedettiani» principi non negoziabili sui quali si regge la civiltà, seguono i temi del matrimonio, della famiglia e della libertà di educazione: i luoghi della vita.
Naturalmente, quando si parla di matrimonio e famiglia, la prima cosa da evitare è immaginarsi un quadretto alla «mulino bianco». Se c’è, non guasta. Ma non è questo.
Il matrimonio, come ha detto Benedetto XVI con espressione destinata a far testo, è «patrimonio dell’umanità». È anzitutto un’istituzione connaturata all’essere umano, e chiunque la limitasse alla sua dimensione affettiva cadrebbe in un sentimentalismo ideologico che oscura la realtà. Come ha scritto il professor De Marco, a proposito della «riforma» zapateriana del matrimonio, «Per la cultura del legislatore l’istituto matrimoniale non esiste più, anzitutto concettualmente. Il testo approvato dalle Cortes spagnole esordisce affermando che il matrimonio è una manifestazione importante, “señalada”, della “relazione e convivenza di coppia fondata sull’affetto”: definizione infondata, con cui non si supererebbe un esame di sociologia o di antropologia del primo anno». Da che esiste il mondo, uomini e donne si sposano perché complementari gli uni agli altri, per aiutarsi e sostenersi reciprocamente (da soli non si va da nessuna parte) e per continuare la specie. Sarà poco romantico, ma sicuramente più solido. Gli affetti e gli entusiasmi sentimentali possono anche raffreddarsi. Ridurre tutto ad essi significa porre la causa strutturale della labilità e della volubilità nel rapporto di coppia. Se questo invece è correttamente considerato per quello che è, un impegno di vita, allora è più facile che anche affetti e sentimenti siano duraturi.
Il matrimonio non può essere una mera formalizzazione sociale di legami affettivi per la sua idoneità e vocazione procreativa: la durata e la stabilità dell’effetto – anche solo virtuale – del rapporto coniugale, cioè una nuova vita umana, rivelano che esso è per sua natura definitivo ed indissolubile proprio nella persona del figlio.
E poiché la prole umana è inetta – come insegnava Plinio il vecchio, il piccolo d’uomo, lasciato solo, sa fare una sola cosa: piangere e poi morire –, occorre che qualcuno se ne prenda cura. E non per poco tempo. Chi, ordinariamente, se non coloro che lo hanno generato? Quel barbaro che è ognuno di noi alla nascita – ignaro di tutto, incapace di tutto, privo di principi e regole –, se non allevato, nutrito, curato e istruito, muore; ma se non è educato, ossia introdotto alla verità e al reale, da barbaro diventa selvaggio. Quando però l’educazione è monopolio dello stato, e non è riconosciuta ai genitori e alle famiglie un’effettiva, anche perché economicamente sostenibile, libertà d’educazione secondo i propri legittimi convincimenti e principi, all’orizzonte si profila il suddito e il pargolo rischia concretamente, se non proprio l’inselvatichimento, di rimanere barbaro.
Il matrimonio, dunque, non è solo una cosa di due, ma tendenzialmente almeno di tre: fonda una famiglia. E questa è il paradigma stesso della vita sociale, seminarium rei publicae. Fin dalla nascita, ognuno ha bisogno di altri, in cerchi concentrici sempre più ampi, che testimoniano la naturale socialità della persona e che ripetono dal suo momento iniziale il proprio modello. La società è una famiglia di famiglie. Quando smette di esserla, si disgrega, e da casa dell’uomo diventa prigione o giungla.
La famiglia è quindi essenziale all’uomo e alla società. E come il matrimonio, ha una sua verità, una sua natura. Relativizzarla, affiancandole altre realtà istituzionalizzate – riconosciute cioè idonee a conferire uno status pubblicisticamente rilevante – e ad essa alternative, in quanto precarie e non regolate da un analogo complesso di diritti e doveri, soprattutto con l’esclusione di questi ultimi, comporta inevitabilmente che al paradigma sociale dell’impegno, del sacrificio, della solidarietà, duraturi e non revocabili con un mero atto della volontà, proprio del modello familiare, si sostituisca quello del capriccio sentimentalistico e in ultima analisi egoistico. E le conseguenze disastrose, fin dai tempi del divorzio, sono davanti agli occhi di tutti.
Subito dopo la seconda guerra mondiale, quando l’Italia era letteralmente rasa al suolo e di provvidenze sociali per la famiglia, la maternità e l’infanzia nemmeno si parlava, il tasso di «matrimonialità» – ed i matrimoni erano indissolubili – era di dieci ogni mille abitanti; oggi è poco più di tre. Non parliamo della natalità. Quell’Italia fu ricostruita con straordinaria celerità e diede luogo ad uno dei più grandi miracoli economici della storia. Certo non solo, ma anche se non soprattutto grazie al familismo morale degl’italiani, che diede solidità al corpo della nazione, alla struttura sociale, così come lo scheletro, le giunture e i tendini danno solidità al corpo umano.
«Il matrimonio […] nobilita sia il percorso che l’approdo: il percorso, perché ha comunque trovato il modo di concludersi con un’inequivocabile assunzione di responsabilità; l’approdo, perché quell’assunzione di responsabilità introduce alla formazione di una nuova famiglia, con tanto di figli a seguire. […] Famiglie che funzionano da moltiplicatore degli sforzi individuali nella misura in cui, tutto il contrario di quel che si pensa oggi, aprono davanti agli occhi delle coppie prospettive di più lunga gettata e maggiore consistenza». Così lo statistico laico, laicissimo, Roberto Volpi.
Gli fa eco idealmente un grande conoscitore della storia d’Italia, il professor Emanuele Pagano. «Tale significativo sviluppo sarebbe difficilmente spiegabile senza una duplice eredità, accumulata e trasmessa nei secoli: una ricchezza immateriale, fatta di tradizioni familiari, religiose, di valori spirituali che si esprimevano in una volontà di durata, in una fiducia nella vita, nonostante tutto; e un patrimonio di beni mobili e immobili, che costituiva il capitale prodotto da multiformi attività lavorative e valorizzato nei secoli, grazie anche a una capacità notevole d’investimento e di riconversione in settori differenziati». L’impresa familiare, nerbo del nostro Paese ed espressione, quasi conseguenza naturale, dell’attuazione duratura della famiglia nella sua realtà costitutiva.
Dove può andare la nostra disgraziata nazione se con una tassazione selvaggia e predatrice, quasi un saccheggio e non da parte di truppe d’invasori (o sì?), si colpiscono contemporaneamente il reddito, il risparmio e il patrimonio familiari?
Dove può andare se, contraddicendo l’esperienza di sempre di tutti popoli – e quella elementare di ciascun uomo, condensata nella domanda classica, quando una donna (una DONNA!) è incinta, o quando nasce un bambino (un BAMBINO, non una cosa!): «è maschio o femmina?» –, si pensa di nominare per legge «matrimonio», come Caligola decretò di nominare «senatore» il suo cavallo, una relazione di coppia omosessuale?
Dove può andare se il modello proposto è quello di un totale arbitrio, che contraddice la realtà di natura e la storia di tutta l’umanità, e fa della legge umana il luogo di una mostruosa volontà di potenza, con la quale si cancellano i nomi venerabili di madre, padre, marito, moglie, e si consente, pur di soddisfare una voglia di genitorialità perseguita fuori dei canoni della normalità sessuale, di trasformare una donna in incubatrice vivente, in fattrice artificiale, legalizzando l’utero in affitto, la maternità surrogata? Espressioni quest’ultime d’inaudita violenza e di sfruttamento della miseria portato fin nella carne di chi la soffre.
Dove può andare se si pensa di proibire perché «omofobe» considerazioni come quelle che precedono, e con esse l’insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica, l’opinione di san Paolo (e quella di Dio, manifestatasi a Sodoma), sull’omosessualità come grave disordine morale e antropologico?
All’evidenza non si tratta di temi di fede, ma di ragione. A meno che non si vogliano ritenere, giusto per fare un esempio, il Platone delle Leggi o il Seneca delle Lettere a Lucilio, ispirati e condizionati dal Papa o dal card. Ruini.
E nemmeno si può dire che nessuno obbliga i cattolici – ma non si dovrebbe trattare solo di noialtri – a formare coppie di fatto o ai matrimoni omosessuali, o a divorziare, e così via, epperò non si può impedire a chi ne abbia voglia di farlo.
Il punto, come s’è detto, è la costituzione della società e il suo paradigma, cioè l’autentico bene comune, che è anzitutto umano. Se tutto viene ridotto all’io e alle sue voglie, se tutto viene relativizzato, se l’ordine delle relazioni umane viene non già rovesciato, ma addirittura rinominato, codificando ciò che ha dimensione puramente privata e socialmente irrilevante – quando non pericolosa –, da un canto si «liquida» la società e se ne nullificano i coesivi. Dall’altro, governi e legislatori si arrogano un potere che neppure nel tempo più buio dei totalitarismi del XX secolo hanno preteso di avere: dominare superomisticamente la natura umana, rubare prometeicamente il fuoco della vita e dell’essere.
Ma il cavallo di Caligola rimase un cavallo, e riempì di sterco il senato.