Prove di dialogo tra Cina e Giappone

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Prove di dialogo tra Cina e Giappone

10 Maggio 2008

Storica cinque giorni di visita in Giappone di Hu Jintao, la prima nel Paese del Sol Levante da parte di un presidente cinese dopo quella del 1998 di Jiang Zemin. Scopo dichiarato della missione: migliorare il quadro generale delle relazioni sino-giapponesi. Hu ha terminato giovedì gli incontri ufficiali con le autorità nipponiche e ieri è ripartito per la Cina, dopo aver presenziato ad alcune manifestazioni culturali.

Cina e Giappone vivono un momento particolarmente difficile. Per questo motivo, le due parti hanno preferito in questi giorni spendersi più per approfondire la loro amicizia che per risolvere concretamente le dispute bilaterali. La crisi in Tibet sta offuscando l’immagine cinese nel mondo, a pochi mesi dall’inizio delle Olimpiadi di Pechino. Il primo ministro giapponese Yasuo Fukuda si trova in gravi difficoltà interne, il suo governo ha un indice di gradimento del 18% e sul Paese comincia a incombere lo spettro delle elezioni anticipate.

Hu e Fukuda hanno firmato un documento congiunto (storico a detta di alcuni osservatori), che riassume l’impegno dei due Paesi a rafforzare la mutua cooperazione sulla base di un ‘rapporto strategico di reciproca convenienza’. E’ il quarto memorandum di intesa che Cina e Giappone sottoscrivono, dopo il Trattato di pace e normalizzazione del 1972 e i successivi accordi del 1978 e 1998.

Hu ha parlato di un nuovo, storico, punto di partenza nelle relazioni sino-nipponiche. Per aumentare la reciproca fiducia, i due leader si sono accordati per stabilire regolari visite annuali tra i loro governi. Hanno affermato di aver riportato progressi per quanto concerne la disputa sullo sfruttamento di alcuni giacimenti di gas nel Mar Cinese Orientale, rivendicato da entrambi i Paesi. L’idea alla base dell’accordo è quella di uno sviluppo congiunto delle aree contese, dove si sovrappongono le reciproche zone economiche esclusive. Il problema finora è stato però proprio quello di stabilire il loro esatto limite.

Poco è stato detto su due questioni particolarmente spinose: la crisi in Tibet e i casi di avvelenamento da cibo riscontrati in Giappone e dovuti ad alimenti avariati importati dalla Cina. Sul Tibet, Fukuda ha espresso compiacimento per l’apertura di un tavolo negoziale tra i rappresentanti di Pechino e quelli del Dalai Lama. Hu ha invece definito ‘positivi’ i colloqui tenuti tra le due parti la scorsa domenica a Shenzhen, confermando la disponibilità di Pechino a continuare lungo questo sentiero, senza specificare però una data per un eventuale nuovo incontro.

Legato strettamente alla questione tibetana – ma non solo – è la firma di un accordo separato tra i due leader per ripristinare il dialogo sui diritti umani. Avviato dai due Paesi nel 1997, il dialogo in questione era stato interrotto nel 2000 da Pechino per protestare contro la decisione di Tokyo e Washington di sollevare all’Onu il tema del rispetto dei diritti umani in Cina.  

Il problema degli scarsi controlli cinesi sulla qualità delle proprie esportazioni alimentari – che interessa altri Paesi, non solo il Giappone – è stato volutamente sfiorato per non mettere in imbarazzo Pechino. Le due parti si sono limitate a parlare semplicemente di un rafforzamento della cooperazione in materia.

Fukuda non è riuscito ad assicurarsi un esplicito appoggio cinese agli sforzi profusi dal Giappone per ottenere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Sono anni che Tokyo cerca di strappare l’assenso di Pechino, in particolare dopo che questa ha apertamente promosso la candidatura dell’India. La dichiarazione di Hu sul punto è stata a dir poco vaga. Il presidente cinese ha infatti affermato solo che la Cina riconoscerà il ruolo e l’importanza del Giappone nell’Onu e che confida nella volontà nipponica di ricoprire un ruolo costruttivo nella comunità internazionale.

Di un documento separato fa parte anche l’accordo di cooperazione sulla lotta al cambiamento climatico: “La Cina – ha detto Hu – prende atto della proposta nipponica per dimezzare entro il 2050 le emissioni di gas serra dagli attuali livelli”. Diversi osservatori hanno sottolineato l’importanza dell’affermazione del presidente cinese, perché è la prima volta che un leader di Pechino non respinge esplicitamente il principio di fissare un limite alla produzione dei gas serra.

Non si esclude, però, che Hu abbia voluto con questa apertura accattivarsi i consensi degli industriali nipponici, ai quali ha chiesto una maggiore cooperazione in ambito tecnologico e un aumento degli investimenti in Cina, in particolare nei settori del risparmio energetico e della protezione ambientale. Pechino confida nell’aiuto di Tokyo per sviluppare le aree interne del Paese, ma gli imprenditori giapponesi sono un po’ restii a trasferire alta tecnologia nell’ex Impero di Mezzo, preoccupati per le continue violazioni cinesi dei diritti sulla proprietà intellettuale.

La comune volontà di accantonare in questo momento temi scottanti non si ricava solo dall’atteggiamento soft di Tokyo in relazione alla crisi in Tibet, dal riconoscimento del principio di ‘una sola Cina’ per lo status di Taiwan o dalla comune volontà di cooperare per risolvere la crisi sul nucleare nord-coreano, ma, soprattutto, dal modo in cui è stata trattata la questione dell’eredità storica dell’imperialismo nipponico della prima metà del Novecento. Nella dichiarazione congiunta, infatti, a differenza che nel passato, il presidente cinese si è espresso con toni concilianti in argomento.

Dopo un ventennio di costanti miglioramenti, i rapporti tra i due Paesi cominciarono ad incrinarsi proprio durante la visita di Jiang nel 1998. In quella occasione, l’ex presidente cinese criticò fortemente le autorità di Tokyo (persino l’imperatore), colpevoli di non aver chiesto scusa per i fatti legati all’occupazione della Cina da parte dell’esercito nipponico nel periodo 1931-1945.

La tensione aumentò considerevolmente tra il 2002 e il 2006, a causa delle continue visite del premier nipponico Yunichiro Koizumi al santuario di guerra Yasukuni, dove oltre a quelle di migliaia di soldati giapponesi giacciono le spoglie di alcuni criminali di guerra, responsabili di atrocità durante il secondo conflitto mondiale. I pellegrinaggi di Koizumi al tempio Yasukuni provocarono nel 2005 vaste proteste di matrice nazionalista in Cina. La tensione cominciò a sciogliersi solo dopo la visita a Pechino di Shinzo Abe (che succedette a Koizumi) nell’autunno del 2006 e quella del premier cinese Wen Jiabao in Giappone nell’aprile successivo.

Hu e Fukuda in questi giorni hanno rimarcato la loro comune volontà di impegnarsi perché i rispettivi Paesi crescano come partner commerciali e non come rivali geopolitici. L’auspicio è dunque quello di colmare il fossato nelle relazioni diplomatiche, come da anni è accaduto per quelle economiche. Nel 2007 Pechino ha scalzato Washington come primo partner commerciale di Tokyo. L’anno scorso, infatti, l’interscambio commerciale sino-giapponese ha toccato i 237 miliardi di dollari (più 12% rispetto al 2006). Le due economie sono ormai complementari. Mentre la Cina fa affidamento sui massicci investimenti nipponici, Il Giappone considera il vasto mercato cinese una preziosa alternativa per le proprie importazioni, nel caso in cui gli Usa entrassero in una fase recessiva.

Se il punto di maggior frizione per la Cina nelle sue relazioni con il vicino è quello della interpretazione storica del nazionalismo nipponico, per il Giappone la preoccupazione maggiore è l’aumento della spesa militare cinese. Questa ha raggiunto ufficialmente nel 2008 i 60 miliardi di dollari, con un incremento del 17,60% rispetto al 2007. Per Tokyo il riarmo cinese è un ovvio problema di sicurezza nazionale, accresciuto dal fatto che ci sono dubbi sulla reale trasparenza di queste stime, che dovrebbero essere in realtà riviste al rialzo.

In un discorso alla Waseda University di Tokyo, Hu ha ribadito che la spesa militare cinese è rivolta a una politica difensiva e non ad aspirazioni egemoniche nell’area: “La Cina non si impegnerà in una corsa al riarmo e non diverrà una minaccia per nessun Paese”.

Sin dal suo insediamento nel settembre scorso, Fukuda si è sforzato – con poca fortuna sinora – di tracciare le linee strategiche del Giappone in Estremo Oriente. In parallelo all’alleanza con gli Usa (pietra angolare del sistema di sicurezza nipponico nell’area), il primo ministro di Tokyo ha voluto sviluppare una ‘diplomazia asiatica’ per appianare le differenze con i Paesi vicini (scottati quasi tutti dalla memoria dell’imperialismo nipponico), in particolare proprio con la Cina.  

Nella visione di Fukuda, Tokyo e Pechino dovrebbero essere i pilastri di un spazio economico e di sicurezza comune del Pacifico occidentale (East Asian Community). Un progetto avversato da Washington, che teme di vedere ridimensionata la sua leadership regionale, a favore di un organismo multilaterale inevitabilmente dominato dalla Cina. E, a dire il vero, visto con sospetto anche da una parte della società nipponica, che in questi giorni ha contestato il presidente cinese al grido di: “Tibet libero, no alla diplomazia dei panda e no al cibo avvelenato cinese!”.