Può esserci un dibattito sull’Unità solo se c’è qualcosa da difendere
12 Giugno 2011
di Zeno Cavalla
In occasione dei festeggiamenti per la Festa della Repubblica – o Festa delle Forze Armate, a seconda di dove si preferisce porre l’accento – il nostro Presidente, Giorgio Napolitano, ha citato “L’esistenza di un forte sentimento di unità nazionale che è un fattore prezioso per suscitare quel nuovo impegno collettivo di cui il Paese ha bisogno”.
Ebbene, ciò che appare chiaro, quando i politici italiani parlano di sentimento di unità nazionale, o "coscienza unitaria" per non scomodare il concetto di nazione, è che sanno di parlare ad un popolo che da quell’orecchio non si sa mai quando ci senta e quando no. Un’altra cosa che appare evidente, negli interventi di politici e commentatori, è che questa situazione è vissuta con un certo rammarico, come a dire che sono fortunati i governanti di popoli più facili guidare. Ma la cosa più importante da rilevare è che, il più delle volte, non è chiaro di cosa si stia parlando. Fior di romanzieri si sono spremuti le meningi nel corso degli anni a scandagliare i sentimenti dell’animo umano, le ambiguità, i difficili equilibri tra emozione e ragione, distinguendo un’amicizia dall’altra, osservando come gli amori di due coppie non si somiglino tra loro poi molto; tuttavia si parla di coscienza unitaria come se non vi fosse che un solo modo di sentirsi uniti.
In primo luogo, si può parlare di coscienza unitaria per indicare un sentimento che tende all’esclusione del diverso ed all’ostilità. Vi sono agglomerati umani che tendono a formare un gruppo coeso, identificato da caratteristiche storiche, etniche, linguistiche o religiose, volto a difendere le proprie risorse o ad aggredire quelle altrui. In questo senso la coscienza unitaria, che non è propria solo delle società primitive, ma può benissimo essere riconosciuta nel motto del nazionalismo inglese “right or wrong, my country” (“che abbia ragione o torto è il mio paese”), oltre ad essere vagamente immorale, può essere mantenuta viva solo e fintanto che la quasi totalità dei membri del gruppo viene fatta partecipe dei vantaggi ottenuti attraverso la coesione.
Viene talvolta chiamato coscienza unitaria anche un fenomeno ancora più ambiguo, ovvero la sensibilità delle persone a determinati simboli e richiami patriottici. L’ambiguità è dovuta al fatto che, se da un lato è meritorio e necessario rendere omaggio alle virtù civili e a coloro che se ne sono mostrati epigoni, così come richiamarsi ad una storia comune che dia fiducia di fronte alle difficoltà e le incertezze del momento, dall’altro questo apparato di simboli può essere usato dai governanti per ottenebrare la coscienza civica dei cittadini. Sulle pagine dell’Occidentale si osservava non molto tempo fa che Putin ha operato una campagna di riabilitazione di Stalin “vincitore della guerra” per persuadere i russi che solo seguendo un leader autoritario e rinunciando ai propri diritti individuali potranno risultare vincitori nella storia.
Ancora, si fa riferimento allo stesso termine quando si vuole indicare la forza con cui è sentita una Leitkultur, termine tedesco entrato nel linguaggio politico e che potrebbe essere tradotto, non letteralmente, come “la cultura che anima un popolo”. Anche questo aspetto, però, va valutato con ponderazione. Una cultura è fatta di una lingua che si modifica, talvolta di più lingue che si prestano parole le une alle altre, di opposizioni, di contrasti, di corsi e ricorsi storici, di lotte politiche ed economiche che talvolta vengono assimilate e talvolta no. Se si volesse definire una volta per tutte in cosa consista la “italianità” non si potrebbe che scadere nel ridicolo. Una Leitkultur è il frutto di una continua interrogazione su se stessi e, anzi, si identifica con questo sforzo di incessante ricerca. L’intensità con cui un popolo si riconosce nella propria cultura corrisponde anche alla forza con cui al suo interno si discute sui caratteri che la identificano e alla forza con cui attraverso questa discussione la si trasforma.
Infine, e precisato che tutti questi sentimenti sono, in misura minore o maggiore, piaccia o meno, parte del patrimonio emotivo di una nazione, vi è una coscienza unitaria che ha eminentemente valore positivo. Quando un pittore dipinge un quadro e vede che è cosa buona, ne è orgoglioso. Prova una emozione e sente in qualche modo di essere una cosa sola con esso. Non si tratta di alcunché di meramente razionale. Se gli si dice che deve cambiare qualcosa, è facile che guardi il suo interlocutore con sospetto, perché se il quadro gli piace avrà giustamente il timore che, ritoccandolo, possa peggiorare. O anche, semplicemente, di andare incontro al gusto altrui a discapito del proprio. Ebbene, una società funziona forse in modo simile. Meglio funziona, più i cittadini saranno orgogliosi e partecipi. Meglio funziona, più saranno propensi a sacrificare i propri interessi egoistici e, per non uscire di metafora, a trascorrere le notti insonni per completare il capolavoro. Non è un caso che gli italiani siano più fieri della propria cucina che delle proprie leggi.
Ci si potrebbe fermare qui, che le conclusioni sono facilmente intuibili. L’appello all’unità nazionale, per non risultare retorico, deve poter far leva sulla convinzione dei cittadini di far parte di un sistema che va difeso. Ove questa convinzione manchi, lamentarsi e accusare non serve a molto e occorre piuttosto comprendere che questa è la naturale conseguenza della nostra storia. Serviranno tempo e duro lavoro per cambiare le cose. Sono anche i governanti, in cui spesso è forte la tentazione di sottrarsi al controllo della base, ad avere interesse ad innestare un circolo virtuoso e a coinvolgere la società civile. Questo perché minore è la coscienza unitaria, più scarsa la fiducia nel sistema, maggiore sarà la voglia di non rispettare le regole e le leggi. Il rischio che si finisca per essere uno Stato fittizio, in cui quello che viene deciso nei palazzi resta solo sulla carta e non viene ascoltato da nessuno.