Pur di iniziare il ritiro delle truppe Obama scenderà a patti con i talebani
06 Agosto 2011
Fascino a parte, Barack Obama ha da un certo punto di vista una reputazione che nessun politico vorrebbe: si dice che tenga più all’opinione che di lui e delle sue politiche hanno i suoi nemici più di quanto non tenga a quella dei suoi amici. I conservatori lo rimproverano per essersi allontanato da Israele sullo scacchiere del Medio Oriente proprio nel momento in cui Hamas piangeva la morte Osama bin Laden; i progressisti lo accusano di aver annacquato la sua riforma sanitaria e le sue politiche fiscali per accaparrarsi i favori dei Repubblicani moderati che si oppongono alle sue politiche per ragioni di principio. Una reputazione questa, che mette Obama in una posizione delicata, proprio nel momento in cui il presidente si accinge a ritirare le truppe statunitensi dall’Afghanistan. Sembra che Obama approvi in linea di principio un qualche ruolo in futuro per i fondamentalisti islamici talebani, che sono però anche dei nemici giurati degli Stati Uniti nella più lunga guerra che la nazione americana abbia mai combattuto.
La guerra in Afghanistan è spesso definita la “guerra di Obama” per un insieme di buone ragioni. Durante la sua prima campagna presidenziale, Obama ha spesso insistito sul fatto che la sua opposizione alla guerra in Iraq di George Bush non era figlia di una qualche forma di pacifismo, bensì che derivasse dalla sua volontà di dedicare più risorse alla guerra contro Osama bin-Laden e al-Qaeda in Afghanistan. Cosa che ha fatto quando è diventato presidente. Nel 2009, il presidente ha promosso un “surge” che ha portato 30.000 nuovi soldati in quel paese, facendo salire così la presenza statunitense e alleata in Afghanistan a 140.000 soldati. Ha incrementato gli sforzi statunitensi di nation-building, aumentato i raid anti-terrorismo e i bombardamenti con droni. Una strategia che ha prodotto significativi risultati, compreso l’uccisione di Osama bin-Laden lo scorso 2 Maggio, ma che ha anche avuto conseguenze sul lato dei “costi”. Gli incidenti in combattimento sono aumentati drasticamente, a tal punto che la maggior parte dei soldati americani caduti durante questa guerra ormai decennale, sono caduti proprio durante i primi due anni del mandato di Obama.
Inizialmente il “surge” ha contato sul sostegno politico della maggioranza degli elettori Repubblicani e di solo il 17% di sostegno tra gli elettori Democratici. Oggi la guerra è impopolare in tutti i campi politici. Un recente sondaggio Gallup ha reso pubblico che il 59% degli americani oggi è d’accordo con il ritiro. Lo scorso Maggio, un gruppo bipartisan di membri del Congresso Usa contrari alla guerra, è quasi riuscito a far passare una risoluzione che velocizzasse il ritiro. Persino uno come Mitt Romney, un Repubblicano pro-esercito, durante un dibattito tra candidati a metà Giugno scorso ha dichiarato: “Solo gli afghani possono vincere la loro battaglia per l’indipendenza dell’Afghanistan contro i talebani”.
Gli articoli pubblicati su Hamid Karzai danno una buona misura di come gli atteggiamenti del pubblico americano siano cambiati sull’argomento di questi tempi. Cinque anni fa, tutti i ritratti su Karzai non mancavano di citare il fratello Qayum, un affabile immigrato che vive negli Stati Uniti e che possiede un ristorante a Baltimore. Oggi invece i servizi giornalistici su Karzai non perdono occasione per parlare di un altro fratello, Ahmed Wali, un presunto capo criminale della provincia di Kandahar (ndt. Ahmed Wali Karzai è stato ucciso in un attentato lo scorso 12 Luglio da una sua guardia del corpo proprio nella città di Kandahar).
I piani del “surge” di Obama prevedono che l’inizio del ritiro delle truppe avvenga già quest’estate. La morte di bin-Laden ha offerto a Obama l’opportunità di poter in qualche modo “dichiarare vittoria”. Il punto è capire se si tratta di una mossa saggia. Il Gen. David Petreaus, il comandante delle truppe alleate in Afghanistan, presto direttore della Cia sotto l’amministrazione Obama, ha affermato che i risultati ottenuti laggiù, sono “reversibili”. Un invito a mantenere la pressione militare sui Talebani. Se il ritiro di quest’estate dovesse essere troppo corposo, potrebbe dare un incentivo al ritiro anche ad altri partecipanti della coalizione, già riluttanti, in particolare la Gran Bretagna, che conta oggi 10.000 truppe in Afghanistan. Nel 2002 gli Stati Uniti, con l’aiuto del Pachistan, entrarono in Afghanistan per eliminare un potenziale rifugio sicuro per Osama bin Laden.
Le priorità sono però cambiate. Oggi l’argomento più efficace per tenere una larga presenza militare in Afghanistan è che da lì l’Occidente può monitorare quel che succede in Pachistan, senza dover chiedere il permesso al governo pachistano. Nelle settimane che sono seguite all’uccisione di bin-Laden, ufficiali dell’esercito pachistano hanno duramente criticato il vertice dell’esercito, in particolare il Gen. Ashfaq Parvez Kayani, per non aver criticato sufficientemente gli Stati Uniti. Quest’ultimo aspetto rende più plausibile supporre che alcuni ufficiali ai vertici dell’esercito pachistano possano aver giocato un ruolo nel fornire protezione a bin-Laden, braccato dalla giustizia occidentale per anni.
Per quanto riguarda la nostra presenza militare in Afghanistan, esistono buone ragioni tanto per restare quante ne esistono per partire. Ciononostante, la maggior parte delle discussioni sulla politica di Obama in Afghanistan, prendono forma in un curioso isolamento, come se tutto ciò che sinora dibattuto, fosse manifestamente il risultato di uno scontro di visioni strategiche in competizione. Magari importanti quanto lo sono le questioni legate alla precaria situazione fiscale dell’Occidente. Il mondo è molto cambiato da quando, solo pochi anni fa, i politici statunitensi speculavano sulla necessità di mettere insieme un grande corpo civile d’insegnanti, epidemiologi e costituzionalisti che potessero contribuire in Afghanistan, con una qualche forma di soft-power, agli sforzi di nation-building. Nel 2011, il Congresso ha approvato finanziamenti per circa 1.3 trillioni di dollari per finanziare le guerre statunitensi, secondo il Congress Research Service.
Il surge di Obama è costato agli Stati Uniti 120 miliardi di dollari. “E’ sostanzialmente insostenibile continuare a spendere 10 miliardi di dollari al mese su una operazione militare enorme senza che vi intraveda una fine all’orizzonte”, ha affermato il Sen. democratico John Kerry recentemente. Il presidente Obama si muove su un crinale scosceso. Da una parte, avendo ucciso bin-Laden, può spendere un buon risulato sulla guerra in Afghanistan. Se riuscirà a far sembrare normale la partecipazione dei talebani nel governo afghano, allora ogni soldato in più riportato a casa lo rafforzerà politicamente. C’è un punto oltre il quale, però, una maggiore parteciapazione talebana nel governo afghano farebbe calare le tenebre su una maggiore partecipazione talebana al governo dell’Afghanistan, e ci riferiamo alla possiblità che un accordo del genere appaia come una sconfitta militare degli Stati Uniti. Un’eventualità, quest’ultima, che sancirebbe il limite oltre il quale non ci si può più fidare del proprio nemico. E questo lo ammetterà anche il presidente Obama.
Tratto dal mensile di politica internazionale Longitude
Traduzione di Edoardo Ferrazzani